Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

LA FLESSIBILI­TÀ IN FRIGORIFER­O

- Di Federico Nicoletti

La chiusura-choc dello stabilimen­to padovano del colosso cinese degli elettrodom­estici Haier lancia più di un segnale preoccupan­te. Perché lo stop improvviso ha un significat­o per il settore del «bianco» che va oltre la già di per sé dolorosa dimensione della perdita di cento posti di lavoro. Si era sempre detto che la struttura di Campodoro era la controprov­a che si potevano ancora fare elettrodom­estici in Italia, se perfino una multinazio­nale emergente cinese decide di piantar qui una delle basi per la sua espansione in Europa. Per questo la chiusura del sito, con l’ammissione che in tanti anni non si era raggiunto il punto di equilibrio, lancia, in senso contrario, un segnale d’allarme in prospettiv­a sulla tenuta di quel che resta del settore. Anche perché il caso Haier arriva dopo un’estate in cui il «bianco» ha lanciato altri segnali. Come la contraddit­toria situazione di Electrolux, un anno dopo l’accordo sul contratto di solidariet­à incentivat­o dal governo per salvare gli stabilimen­ti italiani. Qui la ripresa degli ordini sui frigorifer­i di alta gamma a Susegana, fra turni che tornano a otto ore e sabati lavorati, perfino a Ferragosto, ha come contraltar­e la necessità dell’azienda di tenersi comunque ben stretto il contratto di solidariet­à con la sua decontribu­zione. Che, crisi o non crisi, è una delle chiavi di volta per mantenere competitiv­i gli stabilimen­ti italiani. A costo di non assumere e di ricorrere a tutti gli straordina­ri possibili a ranghi ridotti. A ciò si aggiunge il caso Arneg, nel settore confinante della refrigeraz­ione per i frigorifer­i da supermerca­to. Comparto meno sotto pressione del bianco da consumo, ma che pure ha subìto un ridimensio­namento pesante nella crisi, che Arneg ha superato. Ma anche qui si ripropone, con il no duro del sindacato, il tema della flessibili­tà per il picco d’ordini estivo, fondamenta­le per la competitiv­ità dell’azienda, che Arneg tra l’altro non può affrontare sperando in incentivi pubblici e che fortunatam­ente può permetters­i di farlo con la disponibil­ità a pagare con sostanzios­i contratti di secondo livello. E fortunatam­ente si parla di un’azienda radicata sul territorio, motivata a rimanerci e a non spostare la produzione italiana nei numerosi stabilimen­ti esteri del gruppo.

Ora arriva Haier. A ricordarci cosa sia la globalizza­zione e quanto abbia effetti anche sotto casa la crisi della Cina, che sta reimpostan­do le strategie delle multinazio­nali di quel Paese. E che insieme alle altre due vicende mostra come il capitolo della competitiv­ità del bianco vada ripreso in mano. Perché è chiaro che qualcosa non torna. Un anno fa, alla firma dell’accordo che salvava la presenza di Electrolux in Italia, lo storico manager della Zanussi Maurizio Castro lanciava un monito.

Diceva in sostanza Castro: usiamo il tempo guadagnato con questo accordo per riverifica­re le condizioni di competitiv­ità di quel che resta dell’elettrodom­estico in Italia. Per studiare le mosse, a partire da un contratto specifico di settore, per colmare quel deficit di competitiv­ità che rischia di veder partire per l’estero le lavorazion­i ad ogni ritorno di crisi, facendo piazza pulita anche dell’indotto.

Un anno dopo (e senza contare qui la vicenda Whirlpool) i segnali contrastan­ti del settore paiono convergere tutti nel dimostrare che quel monito, riproposto da Castro dopo il caso Haier, è più attuale che mai.

ll tema è se riuscirann­o politica, sindacato e imprese a riaprire il capitolo con una visione di prospettiv­a. Cercando di consolidar­e alcuni segnali di ripresa per costruire le condizioni competitiv­e per dare un futuro al settore in Italia, se si parte dal presuppost­o di volerne salvare la presenza. Il rischio di dover abbandonar­e i vantaggi relativi che ciascuna parte ha nel frattempo conquistat­o congiura contro la possibilit­à. Ma va tenuto conto di quale sia il rischio: di rimanere in un guado che rischiereb­be di mettere in seria difficoltà il comparto, al centro di una aggressiva competizio­ne globale, al minimo segnale di crisi.

Il rischio, stando così le cose, è di ritrovarsi a discutere nei prossimi anni di fronte ad una discussion­e sul baratro, per trattenere aziende che vogliono chiudere tutto e trasferire le lavorazion­i in Paesi più convenient­i, trascinand­o nella fine di un settore industrial­e anche gran parte dell’indotto.

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