Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
LA FLESSIBILITÀ IN FRIGORIFERO
La chiusura-choc dello stabilimento padovano del colosso cinese degli elettrodomestici Haier lancia più di un segnale preoccupante. Perché lo stop improvviso ha un significato per il settore del «bianco» che va oltre la già di per sé dolorosa dimensione della perdita di cento posti di lavoro. Si era sempre detto che la struttura di Campodoro era la controprova che si potevano ancora fare elettrodomestici in Italia, se perfino una multinazionale emergente cinese decide di piantar qui una delle basi per la sua espansione in Europa. Per questo la chiusura del sito, con l’ammissione che in tanti anni non si era raggiunto il punto di equilibrio, lancia, in senso contrario, un segnale d’allarme in prospettiva sulla tenuta di quel che resta del settore. Anche perché il caso Haier arriva dopo un’estate in cui il «bianco» ha lanciato altri segnali. Come la contraddittoria situazione di Electrolux, un anno dopo l’accordo sul contratto di solidarietà incentivato dal governo per salvare gli stabilimenti italiani. Qui la ripresa degli ordini sui frigoriferi di alta gamma a Susegana, fra turni che tornano a otto ore e sabati lavorati, perfino a Ferragosto, ha come contraltare la necessità dell’azienda di tenersi comunque ben stretto il contratto di solidarietà con la sua decontribuzione. Che, crisi o non crisi, è una delle chiavi di volta per mantenere competitivi gli stabilimenti italiani. A costo di non assumere e di ricorrere a tutti gli straordinari possibili a ranghi ridotti. A ciò si aggiunge il caso Arneg, nel settore confinante della refrigerazione per i frigoriferi da supermercato. Comparto meno sotto pressione del bianco da consumo, ma che pure ha subìto un ridimensionamento pesante nella crisi, che Arneg ha superato. Ma anche qui si ripropone, con il no duro del sindacato, il tema della flessibilità per il picco d’ordini estivo, fondamentale per la competitività dell’azienda, che Arneg tra l’altro non può affrontare sperando in incentivi pubblici e che fortunatamente può permettersi di farlo con la disponibilità a pagare con sostanziosi contratti di secondo livello. E fortunatamente si parla di un’azienda radicata sul territorio, motivata a rimanerci e a non spostare la produzione italiana nei numerosi stabilimenti esteri del gruppo.
Ora arriva Haier. A ricordarci cosa sia la globalizzazione e quanto abbia effetti anche sotto casa la crisi della Cina, che sta reimpostando le strategie delle multinazionali di quel Paese. E che insieme alle altre due vicende mostra come il capitolo della competitività del bianco vada ripreso in mano. Perché è chiaro che qualcosa non torna. Un anno fa, alla firma dell’accordo che salvava la presenza di Electrolux in Italia, lo storico manager della Zanussi Maurizio Castro lanciava un monito.
Diceva in sostanza Castro: usiamo il tempo guadagnato con questo accordo per riverificare le condizioni di competitività di quel che resta dell’elettrodomestico in Italia. Per studiare le mosse, a partire da un contratto specifico di settore, per colmare quel deficit di competitività che rischia di veder partire per l’estero le lavorazioni ad ogni ritorno di crisi, facendo piazza pulita anche dell’indotto.
Un anno dopo (e senza contare qui la vicenda Whirlpool) i segnali contrastanti del settore paiono convergere tutti nel dimostrare che quel monito, riproposto da Castro dopo il caso Haier, è più attuale che mai.
ll tema è se riusciranno politica, sindacato e imprese a riaprire il capitolo con una visione di prospettiva. Cercando di consolidare alcuni segnali di ripresa per costruire le condizioni competitive per dare un futuro al settore in Italia, se si parte dal presupposto di volerne salvare la presenza. Il rischio di dover abbandonare i vantaggi relativi che ciascuna parte ha nel frattempo conquistato congiura contro la possibilità. Ma va tenuto conto di quale sia il rischio: di rimanere in un guado che rischierebbe di mettere in seria difficoltà il comparto, al centro di una aggressiva competizione globale, al minimo segnale di crisi.
Il rischio, stando così le cose, è di ritrovarsi a discutere nei prossimi anni di fronte ad una discussione sul baratro, per trattenere aziende che vogliono chiudere tutto e trasferire le lavorazioni in Paesi più convenienti, trascinando nella fine di un settore industriale anche gran parte dell’indotto.