Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Dall’ex combattente in Siria alla guida spirituale: i quattro camerieri del terrore
Il ritorno dalla Siria e le frasi su Facebook. I vicini di casa: «Normali, silenziosi, tranquilli»
Il lavoro al ristorante, la palestra, poche chiacchiere coi vicini e molte su Facebook, dove inneggiavano la Jihad. Ecco i 4 pronti a far saltare Venezia.
VENEZIA Traditi da Facebook e da Instagram, le piattaforme della globalizzazione in cui naviga quell’occidente che volevano annientare. I quattro camerieri, due dei quali radicalizzati dopo un viaggio in Siria nel 2015, condividevano la guerra santa sul web, ed è grazie a questa debolezza «social» che sono stati scoperti dagli uomini della polizia e dai carabinieri. Nell’era digitale basta un like per ricostruire reti e relazioni, anche dietro a profili nascosti da falsi nomi: difficile non notare combattenti dell’Isis, tra gli amici dei quattro camerieri veneziani. C’era un patto di sangue tra Fisnik Bekaj, il cugino Dake Harizaj e la «guida spirituale» Babaj Arjan, responsabile di aver coinvolto anche il quarto arrestato, un minorenne, e altri tre indagati. A guardarli nessuno avrebbe detto che fossero così pericolosi.
Avevano tutti un aspetto curato: barba corta, abbigliamento quasi sempre elegante: pantaloni scuri, camicia. La divisa da cameriere, il lavoro che tutti e quattro facevano da alcuni mesi, in tre diversi ristoranti. E poi ancora, in comune, la passione per la palestra, per quegli allenamenti che dovevano servire, nel più totale segreto, a prepararsi al Jiad. Sebbene vivessero in due zone diverse, anche se poco distanti tra loro, si ritrovavano puntualmente in un appartamento al civico 1776 del sestiere San Marco, a poche decine di metri dalla piazza. Quella era la loro base e il luogo in cui pregavano. Un’abitazione al quarto piano di una palazzina signorile in una piccola corte in cui vivono per lo più lavoratori come loro.
Due appartamenti invece sono affittati ai turisti, in una vive l’amministratore di condominio, Angelo Malandra, che vedeva spesso Arjan Babaj entrare e uscire. «Aveva registrato un contratto d’affitto a giugno dell’anno scorso e sarebbe scaduto a luglio 2017 – spiega. Malandra incontrava spesso Babaj sulle scale. «Vestiva all’occidentale, non mi è mai sembrato strano, anche se c’erano due tre persone che venivano spesso qui ma non facevano rumore – continua Ricordo che lui scendeva sempre le scale velocemente». Sul campanello non c’è nessuna etichetta. «Era sempre vestito da cameriere - dice il dipendente di un ristorante la cui cucina dà proprio sulla corte Forse lo faceva per non destare sospetti».
Arjan Babaj lavorava da sei mesi all’«Anonimo Veneziano», a poche centinaia di metri da casa. «Era il più bravo di tutti, il più tranquillo – racconta il titolare -. Non fumava, non beveva, si impegnava e andava in palestra quasi tutti i giorni, non parlava quasi mai con nessuno, non raccontava nulla», dice un altro residente che abita vicino. «Quando ho sentito dei rumori, verso le 4.20, sono andato sulle scale e un carabiniere mi ha detto di rientrare a casa, ho pensato che si trattasse di un’operazione antidroga», continua Malandra - Abbiamo avuto un paio di furti di recente, ma non abbiamo sospettato di loro». Quel luogo era un punto di ritrovo stabile che gli altri due arrestati, Fisnik Bekaj e Dake Haziraj, raggiungevano per pregare. A volte i tre si spostavano in terraferma, a Mestre, per pregare insieme ad altri fedeli. Bekaj e Haziraj, che lavoravano al «Pako’s Pasta & Pizza» e al «Planet Pub & restaurant», vivevano a meno di un chilometro a piedi, in un condominio in Calle de la Mandola. «Erano qui da meno di cinque mesi – racconta una vicina di casa - Prima di loro c’erano altri ragazzi dell’est, forse connazionali, che mi avevano detto che i nuovi inquilini erano loro amici». I due, però, erano raramente a casa. «Partivano la mattina presto e tornavano la sera tardi – continua la signora -. Erano educatissimi, gentili, ma non parlavano mai con nessuno. L’unica occasione è stata quando si è rotta la caldaia e mi hanno detto che anche a casa loro era molto freddo». Alla gente mostravano un volto pulito, su Facebook invece c’era tutta la loro sete di sangue. E negli ultimi mesi la rabbia era salita.
Il 22 gennaio Fisnik Bekaj, con un falso profilo intestato ad Abdu Rahman scrive: «Chi combatte sulle strade di Allah e viene ucciso è martire o trionfa». Il 27 marzo, mentre polizia e carabinieri consegnano alla procura l’ultima informativa che porterà all’arresto di tutta la «cellula», Fisnik pubblica una foto con dei cadaveri e provoca gli islamici moderati europei: «I musulmani vengono uccisi e torturati in tutto il mondo mentre in una moschea di Londra fanno un minuto di silenzio per gli attentati». E’ solo l’ultimo atto prima di finire in carcere, parole che arrivano dopo un’escalation di frasi che inneggiano alla battaglia. L’«onore ai Martiri» è una frase che ricorre spesso su Instagram e su Facebook, dove contemporaneamente vengono pubblicati i video della propaganda di Daesh. La battaglia dei quattro inizia alla fine del 2015. Dake e il cugino Fisnik, vanno prima in Kosovo e poi in Siria, tornano a fine anno aggressivi, con volti tumefatti e mani rotte. In laguna li aspetta Arjan Babaj, guida spirituale che arruola anche il minorenne. E’ l’inizio della loro missione di guerra a Venezia, e a all’occidente intero. Una missione fallita sul fil di lana.