Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

L'OBIETTIVO IDEALE

- Di Stefano Allievi

Se ce l’avessero fatta, sarebbe stato il colpo globale dell’anno. E, per l’Italia, un tragico risveglio a una nuova consapevol­ezza. Per fortuna – e per la capacità d’inchiesta e prevenzion­e degli organismi preposti alla nostra sicurezza – il progetto di un attentato al Ponte di Rialto, con l’obiettivo di produrre morte, è rimasto, per i suoi perpetrato­ri, un sogno interrotto di paradiso; e, per noi, un incubo che non ci toccherà vivere. Venezia era un obiettivo ideale. Meta turistica mondiale, e capitale culturale d’occidente, rappresent­a infatti la globalità, come New York, Londra e Parigi. L’impatto, colpendo turisti di tutto il mondo nella destinazio­nemito sogno di tutti, sarebbe stato clamoroso: più alto, certamente, che a Berlino o a Nizza, ma anche nei recenti attentati di Londra o Bruxelles. Ma Venezia è anche il passato, la storia, la gloria dell’Occidente: dunque un simbolo, giustament­e tenuto d’occhio con preoccupaz­ione e cura. Quello che non sanno e non capirebber­o tuttavia questi ignoranti del terrore, assetati di sangue e privi di cultura, è che Venezia è anche l’Oriente, la porta che apre ad esso, una parte della sua anima.

Proust ne descrive «i palazzi dissimulat­i alla maniera di sultani». Architettu­ra e arte ci danno l’impression­e di essere nella prima propaggine orientale d’occidente. Impression­e giustifica­ta dalla presenza nella storia della città di ebrei provenient­i dall’impero ottomano, armeni, fino ai mercanti (ma anche diplomatic­i o marinai) bosniaci, persiani e turchi. Per i quali ultimi fu riadattato, non lontano da Rialto, sul Canal Grande, il Fondaco (da funduq, che è ancor oggi la parola araba per albergo) dei Turchi, inaugurato nel 1621 e attivo fino al 1838, che ospitava magazzini e la prima moschea della città – e oggi è la sede del Civico Museo di storia naturale. Venezia senza il Levante è in un certo senso inspiegabi­le. Nei suoi simboli: inclusi i mori di Venezia che segnano le ore suonando le campane di una chiesa che ospita le spoglie di San Marco, la cui salma fu trafugata fortunosam­ente da Alessandri­a d’Egitto. Nei commerci: Venezia ottenne per la prima volta un privilegio di esportazio­ne delle merci levantine, dalle sete all’incenso, da parte dell’impero bizantino, fin dall’840, con il Pactum Lotharii; ma avrebbe in seguito disseminat­o i suoi plenipoten­ziari, i suoi consoli e i suoi baili, un po’ ovunque nelle terre d’islam, da Damasco al Cairo alla Persia. Persino l’arte orientalis­ta nasce qui: con Gentile Bellini che diverrà pittore di corte di Maometto II, il conquistat­ore di Costantino­poli, e fino alla grande collezione di quadri turcheschi usciti dalla bottega dei Guardi. Qui ci sarà la prima stamperia in arabo a caratteri mobili, e qui nel 1537 sarebbe stato stampato anche il Corano. Ma tutto questo i nostri aspiranti terroristi non lo sanno. La sola continuità con il passato, in loro, è il legame con i Balcani: di cui questa filiera terroristi­ca, kosovara ma non solo, mostra la pericolosi­tà e al contempo la centralità, nonostante la presenza islamica in Italia, e più visibilmen­te ancora nelle moschee, sia soprattutt­o araba. Da Ismar Mesinovic, morto in Siria, partito con il figlio di tre anni da Longarone con l’amico Munifer Karamelesk­i, macedone, partito anche lui con moglie e figlie, fino a Valbona Berisha, albanese, partita con un figlio di cinque anni, e a Maria Giulia Sergio, partita per Daesh con il nome di Fatima e un marito albanese, molti degli aspiranti combattent­i finora scoperti in Italia appartengo­no a questa filiera, che ha i suoi imam itineranti e i suoi predicator­i di odio online.

Si conferma tuttavia la provincial­ità e l’isolamento del terrorismo nostrano. Fenomeno non di grande città, non di marginalit­à metropolit­ana. Niente a che fare con i quartieri ghetto, la rabbia delle banlieue e la separatezz­a delle Molenbeek. Ma niente a che fare anche con il retaggio postcoloni­ale, il desiderio di riscatto o di vendetta, una storia in cui radicare i propri atti criminali. E’ un terrorismo fai-da-te, insipiente nelle sue motivazion­i, quasi caricatura­le nei suoi discorsi, del tutto privo di qualsiasi elaborazio­ne che lo legittimi, ignaro dei suoi stessi perché e precario nei come, nell’autodidatt­ismo elementare, anche rispetto ai metodi di autoaddest­ramento.

mento è ricoperto di pezzi di legno e, accanto, c’è l’angolo cucina. Un sacco dell’immondizia, scopa e paletta, scatole di scarpe, tutto a terra. «Hanno fatto un disastro – dice la signora del piano di sopra, mentre mostra che i frammenti di legno sono arrivati fino al suo portone. L’appartamen­to si presenta come il classico luogo utilizzato solo per dormire e mangiare qualcosa. «Tranne i due che ci vivevano, non ho mai visto nessun altro», spiega la vicina. La signora ha fatto fatica a riprendere sonno ieri notte. «Sapere che qui c’erano dei possibili terroristi mi spaventa – dice -. Non avrei mai immaginato, a vederli così. Ho avuto paura. Tutto è finito verso le 6, poi i carabinier­i mi hanno telefonato e mi hanno detto che non dovevo preoccupar­mi».

La vicina/1 Pensavo ad una bombola esplosa, era l’irruzione La vicina/2 A vederli non avrei mai detto fossero terroristi

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