Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Festival città impresa A Vicenza incontri su sviluppo e industria
Città Impresa Da oggi il Festival, intervista allo storico Giuseppe Berta
tener saldo un impianto economico che non ha più ragione di essere distinto in Nordovest e Nordest, in Italia, sarà sempre più una fascia di imprese medie da estendere pure in una parte di Centro. Anche se questa convergenza avrà l’effetto di accentuare la divaricazione con il Mezzogiorno, per il quale urge non una politica generale ma un progetto chirurgico che sappia selezionare le buone energie dai casi disperati su cui non investire più un solo altro euro.
Giuseppe Berta, storico dell’industria italiana e dei mercati finanziari, docente in varie università fra cui la Bocconi di Milano - che stamane a Palazzo Leone Montanari aprirà il Festival Città Impresa di Vicenza confrontandosi con l’economista Aldo Bonomi e il sociologo Stefano Micelli, non ha mai smesso di occuparsi degli sviluppi della polarizzazione fra le estremità della Penisola e dunque di quella che qui si era soliti chiamare «la questione settentrionale».
«L’idea che ho maturato – dice Berta in premessa – è che sia ormai in atto una unificazione del Nord del Paese, con conseguente perdita di significato di distinzioni in Ovest ed Est e, in parte, anche con il Centro Italia»
Professore, qual è il denominatore comune fra aree che, fino all’inizio di questo decennio, si differenziavano per la presenza della grande industria nelle regioni occidentali e della piccola e micro impresa nel Triveneto?
«Il protagonista del nuovo modello economico è l’impresa di taglio medio, che è la più vivace e che, anche grazie alla sua proiezione internazionale, si offre come elemento di traino per le piccole aziende le quali, in questo modo, vengono pilotate e spinte anch’esse su mercati lontani prima impraticabili. Sono le medie la cerniera fra l’Italia e il mondo».
Per definire una media impresa si ricorre a parametri standard di fatturato, fra 50 e 250 milioni, e di occupazione, entro i 500 dipendenti. E’ un criterio rigido?
«Io lo allargherei sia a realtà più piccole ma con grandi capacità di presenza internazionale e di far filiera con le reti locali, ad esempio, per parlare di Vicenza, la Ares di Roberto Zuccato, sia a industrie più grandi ma che si identificano bene in questo ruolo. Penso alla Brembo di Alberto Bombassei o alla Mapei di Giorgio Squinzi».
E la grande industria dov’è finita?
«Guardiamoci intorno. Fiat è Fca ed ha lasciato da tempo i nostri confini, Pirelli appartiene ad un gruppo statale cinese, Luxottica, legata ad Essilor, si sta posizionando su un teatro internazionale. Possiamo continuare a lungo».
La grande impresa, nel secolo scorso, era però anche classe dirigente e sapeva rapportarsi con i governi disegnando, di fatto, le linee di politica industriale. La media ne è capace?
«No di certo. C’è un profondo sfilacciamento dei rapporti con la politica, complice il fatto che sta saltando anche ogni meccanismo di mediazione degli interessi. I corpi intermedi sono in una crisi profondissima».
Parliamo perciò pure di Confindustria.
«La sua debolezza è evidente, paga anche la sconfitta del referendum di Matteo Renzi, premier al quale aveva riconosciuto un grande appoggio. Resta più interessante il ruolo che possono svolgere le maggiori associazioni regionali».
Non è che in Veneto, in questo momento, Confindustria brilli per coesione…
«L’omogeneizzazione delle dinamiche economiche di tutto il Nord Italia è invece di questo che ha bisogno».
Il taglio medio, però, se applicato alle imprese bancarie in Veneto non ha dato certo il meglio di sé. Che opinione ha?
«Sorvoliamo sulle distorsioni, inutile ragionarci ancora. Fino ad oggi per cercare capitali o c’era la banca o c’era la Borsa, entrambi canali che si sono rivelati deludenti. Non è tanto di credito che la media impresa ha bisogno quanto di capitale di rischio. Servono strumenti finanziari che le banche non possono dare».
Per concludere, le medie imprese che indica come di vero collante del Nord di quali politiche hanno bisogno?
«Devono crescere di numero e dunque servono incentivi per l’aggregazione delle piccole» E il Sud? «Di Sud ce ne sono tanti ma nessuno può crescere spontaneamente. Bisogna fare una selezione molto attenta, non politiche generali. Ci sono aree che è bene non sostenere».