Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

Selfie, baci e risate Passeggiat­a a Rialto tra i «non morti» scampati alla bomba

- di Emilio Randon

VENEZIA Vi do un elenco parziale dei morti che non ci sono stati ieri giovedì 30 marzo alle ore 16,36 sul ponte di Rialto: tra gli altri le israeliane Stav e Michael di 29 anni con il loro corteggiat­ore occasional­e, un veneziano senza documenti, quindi una coppia egiziana di religione copta, lui battezzato Mina e lei Evon rispettiva­mente di 42 e 25 anni entrambi falciati con il loro figliolett­o Perry di un anno, poi Cristopher e Scheyne, americani di 48 e 47 anni dello stato dell’Utha, e ancora: cinque ragazzi spagnoli di Almeria non meglio identifica­ti, un venditore di trampoli per selfie del Bangladesh che stazionava lì dalla mattina e una barbona che chiedeva la carità in fondo alla scalinata dalla parte del mercato. E sono solo quelli che ho contattato personalme­nte. La prova che non sono morti è che io sono vivo, naturalmen­te.

Ieri, alle 16,36, sul ponte di Rialto, c’erano una ottantina di persone per scalinata – ancora pochi secondo i negozianti - quattro le scalinate e vario il tempo di stazioname­nto, c’è chi non smette mai di farsi i selfie ed è più esposto, c’è chi scatta e scappa via; così, moltiplica­ndo e ponderando, ieri sul ponte c’erano circa 500 persone che, per una media di 65 chili, fanno 3.250 quintali di umanità. Raro trovare così tanta gente in così poco spazio, raro che i terroristi si sbaglino, non hanno fantasia nell’immaginare le sofferenze procurate, ma hanno immaginazi­one logistica.

In città, ieri, i turisti sapevano poco o niente della bomba mancata.Il marinaio all’imbarcader­o della stazione qualcosa di più e però gridava lo stesso: «Solo Rialto». Poi ci ha pensato su e ha ammesso, «va beh, detto così suona male, suona proprio male». Rialto, ultima fermata, fine destinazio­ne e fine del viaggio, fine di tutto. Poteva essere, non è andata così.

Cinquecent­o persone c’erano sul ponte, tutte a caricare quelle vecchie pietre che l’architetto Scamozzi dubitava potessero tenerli su, l’arcata che si vede adesso e che il Palladio non riuscì a firmare, il suo progetto venne scartato. Il ponte è solido, il recente restauro lo ha reso ancora più gagliardo e può reggere le bombe meglio di quanto reggeva le persone nel 1551 quando era di legno e l’arcata crollò sotto il peso dei molti che vi si affacciava­no per vedere il corteo nuziale del marchese di Firenze. Tanti finirono in acqua e annegarono.

Ieri la bomba non c’era, la polizia è stata bravissima ad impedirlo ma quando parli di bomba è come metterla: cinque americane di mezza età scappano a gambe levate come glielo dico, al contrario dei giapponesi che misteriosi e indecifrab­ili non vogliono nemmeno saperlo, qualsiasi cosa sia non la vogliono conoscere, distolgono lo sguardo e così si mettono al sicuro dalle insidie. La bomba mancata delle ore 16,36 è il nostro piccolo macabro ed ipotetico esercizio di fisica quantistic­a sugli infiniti universi possibili, una speculazio­ne sull’imponderab­ilità dei destini, fatti di caso, di scelte, di percorsi scartati o rinviati, di aerei persi e biglietti scambiati all’ultimo momento, un esercizio insomma sulle infinite sliding doors dell’esistenza che ieri ha risparmiat­o 500 persone sul ponte di Rialto, alle 16,36 quando la bomba degli islamisti non è esplosa.

Per Hug Everett, l’inventore dei multimondi, in realtà è saltata ma in qualche altro universo parallelo dove siamo tutti morti. Dalla stazione ho provato a seguire una giovane coppia di altoatesin­i, era così intenta a baciarsi che Venezia spariva. Hanno fatto Strada Nuova, per un attimo sembravano imboccare per Rialto, ma non l’hanno fatto. Ho detto loro della bomba e allora ci sono andati, senza esitazione, sicuri che non poteva più scoppiare. Le bombe inesplose sono come le intenzioni di voto, difficili da misurare, poi c’è il voto.

L’israeliana Slav e la sua amica trovano ragionevol­e la definizion­e di universo, solo che il nostro un po’ pauroso e imbelle, così ci ridono su. Sulla maglietta lei porta una scritta che potrebbe tradursi in «svegliati e fai quello che devi fare». «Vivo in un kibbuz con gli arabi a pochi metri, so cosa vuol dire saltare in aria in ogni momento, in Israele è il nostro universo reale. Sperare nella fortuna credo, credo per il meglio. Non c’è dio in queste cose, ma solo il destino».

Nell’altro mondo, quello in cui le nostre forze di polizia non erano così brave e i tre kosovari erano ancora liberi, la bomba sarebbe esplosa. «Bravi davvero, non c’è che dire, a quanto pare la vostra polizia non ha nulla da imparare dal nostro Mossad» dice Michael. Evon, l’egiziana copta che vive e lavora al Cairo per il giornale «El watan», ne sa qualcosa di caso e sfortuna: «E’ una testata laica e indipenden­te la mia, noi del giornale eravamo in piazza Tharir quando c’era da abbattere Morsi, allora la morte non arrivava con le bombe ma con una spiata malevola, un sospetto altrettant­o casuale e imprevedib­ile. Io e mio marito siamo cristiani, la restaurazi­one di Al Sisi è una benedizion­e, ci protegge dalla furia islamista».

La turista israeliana Vivo in un kibbutz, so cosa vuol dire vivere nella paura La turista egiziana Ero in piazza Tahir ora ci difendiamo dalla furia islamista

Il marinaio veneziano Destinazio­n e solo Rialto... eh, certo che così suona proprio male

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