Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

Il papà di Valeria «Era prevedibil­e, ormai è guerra Ma qui non c’è una banlieue»

- Di Alice D’Este

VENEZIA «Lo sapevamo e lo sappiamo tutti purtroppo che qualcosa del genere poteva succedere da un momento all’altro». Reagisce così Alberto Solesin, padre di Valeria, la ricercatri­ce veneziana uccisa il 13 novembre 2015 nell’attentato al Bataclan di Parigi, di fronte alla minaccia jihadista veneziana. «Sono stati fermati prima — dice — grazie alle forze di polizia. Per bravura ma anche per un po’ di fortuna l’attentato non è stato portato a termine». C’è del fatalismo assolutame­nte comprensib­ile nelle sue parole. Un occhio critico ad una situazione che sembra ingovernab­ile anche quando i controlli delle forze dell’ordine liberano il campo prima che la furia si sia lasciata dietro qualche vita. «La situazione italiana forse è anche più facile da un certo punto di vista — afferma — siamo un Paese ad immigrazio­ne più recente, quando ero giovane io c’erano pochi migranti, gli albanesi in fuga e qualcuno di quelli che si chiamavano vu’ cumprà. Cominciano ora le seconde generazion­i. In Italia in un certo senso il migrante è ancora “distinguib­ile”. E spesso questo porta le persone ad avere maggiore attenzione. Siamo agevolati nella prevenzion­e perché siamo indietro nell’integrazio­ne». Non è così in altre parti d’Europa. Non è così a Parigi. Non è così a Londra. In città e nazioni dove il melting pot è arrivato alla fine della sua corsa creare dei «distinguo» diventa quasi impossibil­e. Qualunque sia la tua origine sei giustament­e solo un londinese, un parigino. Il dirimpetta­io kosovaro e musulmano è uno tra i tanti. «In quei paesi il processo di integrazio­ne è molto più avanti – dice Solesin – i migranti sono arrivati due generazion­i fa e ora ci sono i figli dei migranti, nati e cresciuti in Europa. In quel caso se da un lato si capisce facilmente quello che ha funzionato nei processi sociali emerge in modo chiaro anche quello che non ha funzionato come le concentraz­ioni monoetnich­e dei quartieri, le enclave o alcune zone delle banlieue. Quello che diventa meno facile capire però sono le radicalizz­azioni. Se un giovane marocchino francese di terza generazion­e perfettame­nte integrato abbraccia l’Isis nessuno lo sospetterà mai. Qui in Italia quartieri protetti non ne esistono e siamo indietro nel processo. Ma questo ci facilita». Un processo «in ritardo» che rende più efficaci anche i controlli, sia del vicinato che delle forze dell’ordine. E che in questo caso ha impedito che fosse colpito un simbolo di Venezia. «Il ponte di Rialto è un simbolo – dice Solesin – ma lo è anche piazza San Marco. Eppure una settimana fa c’è stata una rapina. Non mi sarei mai aspettato che qualcuno osasse puntare ad una zona così centrale. E l’hanno fatta franca». I controlli stavolta però hanno dato i loro frutti. Tant’è che i tre potenziali terroristi sono stati arrestati. «Stavolta è andata bene – dice Solesin – ma la prossima? Vorrà dire che se cominceran­no a sparare nelle strade camminerò rasente al muro come si fa in guerra. Poi, se si deve morire si muore lo stesso». La verve allora si calma, diventa silente. Il pensiero va a Valeria. «Diverso dagli altri giorni? No, a lei pensiamo ogni giorno. Solo quello che è accaduto testimonia che Venezia è una città come tutte le altre».

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Prof Alberto Solesin

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