Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
«Venezia non è un simbolo religioso L’hanno scelta per il boom mediatico»
Diez (Fondazione Oasis): «Il radicalismo? L’unica soluzione è la prevenzione»
VENEZIA «Roma è un simbolo religioso forte per il mondo islamico. Venezia assolutamente no». Martino Diez, trentino, 38 anni, dà una prima lettura del blitz che ha portato allo smantellamento della cellula integralista kosovara. Professor Diez, perché allora scegliere Venezia?
«Premetto che non conosco gli atti dell’inchiesta e quindi non sono in grado di dare un giudizio definitivo. Mi sembra però che Venezia sia stata scelta come obiettivo turistico, con un doppio possibile risultato. Il primo è la massima visibilità mediatica, un aspetto fondamentale per i terroristi islamisti. Il secondo: la conseguenza di un attentato sul ponte di Rialto sarebbe quello di avere un alto numero di vittime, considerato il gran numero di persone che lo attraversano tutti i giorni. È interessante osservare che il luogo scelto è un monumento civile, non una chiesa o la Basilica di San Marco».
Nella sua storia Venezia, repubblica nel Medioevo di monarchie e imperi, è sempre stata caratterizzata dalla laicità. Quanto conta questa caratteristica?
«Poco. Venezia di sicuro ha nel Dna il rapporto con l’Oriente. Scambi commerciali e aspetto religioso si sono continuamente intrecciati. Ha istituito enclave di mercanti in molti paesi dell’area mediterranea: al Cairo esiste ancora, in un quartiere oggi popolare, un “vicolo Venezia”, così chiamato perché vi aveva sede il console della Serenissima. Le due colonne di Piazza San Marco vengono da Tiro, Gentile Bellini ha dipinto il ritratto di Maometto il Conquistatore, solo per fare degli esempi. Ma questo non vuol dire che la Serenissima abbia rinnegato le sue radici cristiane. Piuttosto, affari e religione si sono mantenuti in equilibrio, pur con qualche tensione. Una sua specificità, frutto di questa storia, Venezia comunque la possiede: è l’unica grande città europea, ad eccezione dell’Andalusia, ad avere un nome arabo: al-Bunduqiyya».
La percezione di Roma nel mondo islamico invece è del tutto diversa.
«Senza dubbio. Un paragone non è neppure possibile: Roma ha valore simbolico, Venezia no. Nelle prime fonti islamiche Roma veniva confusa spesso con Costantinopoli, la nuova Roma, ed è associata a un’idea escatologica. Soprattutto in alcuni hadith, cioè detti attribuiti a Maometto, la conquista di Costantinopoli/ Roma è vista come l’inizio della fine del mondo. Nella visione apocalittica jihadista, tutto questo è stato ridisegnato sul presente. Ha fatto scalpore una copertina della rivista ufficiale di Isis, Dabiq, che nell’ottobre 2014 ha pubblicato un fotomontaggio con la bandiera dell’Isis su San Pietro. Poi, per fortuna, le sorti di Isis hanno iniziato a declinare. Insomma, Roma viene considerata un obiettivo religioso. Venezia invece è “solo” una località famosa a livello mondiale».
Lei segue il radicalismo islamico nel mondo arabo. In questo caso, però, la minaccia sembra provenire dall’Europa. Gli arrestati sono kosovari.
«In Bosnia e Kosovo c’è un problema trascurato di radicalizzazione, poiché l’attenzione mediatica è incentrata quasi solo sul Medio Oriente. È giunto il momento di accendere le luci sui Balcani, come è emerso dal lavoro della commissione governativa, e questo episodio lo conferma. Per la vicinanza geografica con l’Italia, quest’area merita una sorveglianza particolare».
Dobbiamo sentirci in pericolo?
«Innanzitutto è necessario avere i nervi saldi, evitare giudizi sommari sulle comunità islamiche nel loro complesso, cercare di capire se i jihadisti sono figure esterne e isolate o se sono attivi nel territorio. Inoltre si devono fare due considerazioni. Primo: anche questo episodio dimostra l’altissimo livello professionale delle nostre forze di polizia. Secondo: al contrario di altri Paesi europei, non ci sono fortunatamente situazioni di tensione generalizzata. Le comunità musulmane, in Veneto, sono discretamente integrate».
Come si può affrontare l’integralismo?
«L’intervento più efficace è la prevenzione, agire quando il processo di radicalizzazione – tramite predicatori o sul web – è agli inizi. Quando il processo di radicalizzazione è giunto al termine, è molto più complesso affrontare la minaccia. Ecco perché ha più senso individuare quella zona grigia in cui il processo è agli inizi. Come? Una proposta emersa in commissione è quella di creare centri regionali, in collaborazione con le scuole, i servizi sociali, le comunità locali, per contrastare il radicalismo sul nascere».