Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Rialto, spuntano altri dieci sospetti
Gli inquirenti intanto valutano di trasferire i presunti terroristi in un carcere di massima sicurezza Frequentavano il covo dei quattro kosovari arrestati. Ieri due interrogatori:« Nessun attentato»
Dopo gli arresti e le espulsioni le indagini della procura antiterrorismo si concentrano su altre dieci persone. Si tratta di simpatizzanti che frequentavano il covo dei quattro presunti jiadisti fermati giovedì in centro storico a Venezia. La procura starebbe valutando la possibilità di trasferire gli arrestati in un carcere di massima sicurezza. Ieri altri due in carcere si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Uno di loro ha detto all’avvocato di «non essere un terrorista».
I sospettati sono almeno dieci, tutti kosovari, tutti residenti tra Venezia e Treviso. Non sono indagati ma qualcosa sanno, o hanno capito, sulla cellula che stava per entrare in azione. Su di loro continuano a concentrarsi le indagini dei carabinieri e della Digos di Venezia che giovedì hanno fermato quattro sospetti terroristi pronti a compiere un attentato sul ponte di Rialto. Intanto gli arrestati, che davanti al giudice per le indagini preliminari si sono avvalsi della facoltà di non rispondere, potrebbero essere tutti trasferiti in un carcere di massima sicurezza che consente l’isolamento dei soggetti pericolosi. A meno che non collaborino e non diano agli investigatori elementi utili alle indagini.
Come, per esempio, i nomi di chi avrebbe dovuto fornire loro l’esplosivo per far saltare in aria a Rialto, o possibili agganci per un’eventuale fuga. Al momento però almeno due dei quattro finiti in carcere hanno dichiarato di essere innocenti. Lo ha detto la presunta «mente» del gruppo Arjan Babaj, detenuto a Belluno e sentito due giorni fa, lo ha ribadito ieri anche Fisnik Bekaj prima di essere sentito dal gip di Treviso. «Non sono un terrorista e non ho mai combattuto in Siria, sono stato solo in Kosovo a trovare mia madre e mio fratello, le ferite alla mano (di cui si parla nell’ordinanza di custodia cautelare e attribuite dagli investigatori ai possibili combattimenti avvenuti in Siria alla fine del 2015 ndr), me le sono fatte cadendo a Venezia». Questa la confidenza fatta da Bekaj all’avvocato Francesco Pelliccia che lo difende. Sono parole che non sono finite nero su bianco, ma che delineano già la strategia difensiva. Intanto le procedure di espulsione sono state avviate nei confronti di altri tre indagati e di un minorenne finiti nella stretta cerchia degli amici della cellula-madre: un cameriere, un parrucchiere e due amici, uno dei quali 17enne.
E poi, appunto, ci sono gli altri, quelli che frequentano sporadicamente il covo di preghiera a San Marco, quelli che non vengono intercettati direttamente ma che conoscono Fisnik Bekaj, Arjan Babaj e Dake Haziraj. Sono i loro amici su Facebook e Instagram. E fanno tutti parte di un ristretto numero di kosovari uniti e compatti tra loro, che non fanno entrare elementi di altre nazionalità nel gruppo. A definire i loro ruoli è un’informativa della Digos depositata in procura il 7 marzo scorso. Sono gran lavoratori, silenziosi e tranquilli, giunti in Italia appoggiandosi a parenti già residenti, e sui social si mostrano «arrivati»: ben vestiti, curati, frequentano locali alla moda. In questo modo rassicurano i genitori e i parenti rimasti in patria.
Ma dietro ai volti sereni e integrati ci sono spesso personalità fragili, bisognose di una guida. E’ qui che entra in gioco, stando alle indagini, la figura di Ajan Babaj, presunto ideologo della cellula, il più informato.
Che sia lui la figura di spicco lo dicono le intercettazioni: era Babaj a spiegare agli altri chi fosse il nemico. Stando a quanto emerge dall’inchiesta coordinata dal procuratore generale Adelchi D’Ippolito sembra infatti che i frequentatori più assidui del covo non fossero molto informati su come e chi combattere. Lo dimostra un’intercettazione ambientale registrata il 2 marzo. Quel giorno ci sono tutti tranne Fisnik, che è ancora al lavoro. Babaj sta parlando della Turchia e delle espulsioni di presunti terroristi dopo alcuni attacchi.
Il minorenne (arrestato) dice che è il momento buono per «dare a San Marco», e Mergim Hakaj (indagato) chiede stupito «Ma l’Italia non sta facendo la guerra?», gli risponde Arxhend (altro indagato): «No la Francia è stata coinvolta di più». «C’è anche l’Italia - risponde Babaj- anche l’Italia ha mandato i soldati e altro, anche se indirettamente... non sembra che ci siano, ma ci sono perché l’Onu include tutti i paesi». in merito ai quali si dice «molto soddisfatto». «Non è facile se non hai una forte convinzione», risponde ad Arxhend Bekaj (indagato), riferendosi a un medico che si era fatto saltare in aria dopo aver messo una bomba in uno zainetto.
Il suo, però, è un atteggiamento forzato secondo gli investigatori. Quello di un ragazzino che entra in un gruppo e vuole conquistare la fiducia del leader, mostrandosi fedele, spavaldo, ma talvolta ingenuo e incosciente. Se in una conversazione sottolinea l’importanza di «non parlare al telefono su Whatsapp», in un’altra dimostra la sua inesperienza