Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Zecchin, vetri e forme essenziali che sognano i colori della Laguna
collaborazione con la storica vetreria Venini è dedicata la mostra «Vittorio Zecchin: i vetri trasparenti per Cappellin e Venini», a cura di Marino Barovier, nuova esposizione de «Le Stanze del Vetro» - progetto pluriennale promosso da Fondazione Giorgio Cini e Pentagram Stiftung - , sull’Isola di San Giorgio Maggiore da lunedì e fino al 7 gennaio. Figlio di vetrai, Zecchin (18781947) aveva respirato l’aria della fornace fin da piccolo, carpendone tutte le tecniche. Fu questo a convincere l’antiquario veneziano Giacomo Cappellin e il neoavvocato milanese Paolo Venini a prenderlo, nel 1921, come direttore artistico della neonata V.S.M. Cappellin Venini & C, destinata in breve ad affermarsi nel panorama internazionale.
Il catalogo proposto è quello che non ti aspetti da uno Zecchin che, dopo avere studiato all’Accademia di Venezia, si era dedicato alla pittura confrontandosi con la cultura artistica delle avanguardie mitteleuropee e partecipando alla grande stagione di Ca’ Pesaro, attratto dagli stimoli offerti dalle Biennali.
Amava l’ornato e la decorazione, come vediamo nello straordinario ciclo pittorico de «Le Mille e una notte». Nei suoi vetri eterei, invece, via orpelli, colori accesi e decorazione, «togliere anziché mettere», sottolinea il segretario generale della Cini Pasquale Gagliardi. In mostra 250 finissime opere monocrome in vetro soffiato dai toni delicati, datate 1921-26, che «restituiscono - marca Luca Massimo Barbero, direttore Istituto di Storia dell’Arte Cini - lo sguardo acquoreo di Venezia, i colori della laguna».
Ma la vera rivoluzione di Zecchin è nella reinterpretazione delle forme antiche. Ecco i famosi vasi «Veronese», ripresi dal quadro sopracitato, che ottennero un tale successo da divenire il logo della Venini; e i servizi da tavola, che riprendono le tavole imbandite del Tintoretto.
Fa un salto ancor più indietro fino all’arte romana ed etrusca, alla ricerca della semplicità e sinuosità delle forme, come nel vaso «Libellula». L’elemento «vezzoso» è dato dalla leggera iridescenza presente in molti manufatti, frutto di una tecnica «fatta di vapori di stagno e titanio», spiega il curatore Barovier. Alcuni pezzi hanno le linee essenziali delle anfore, altri ricordano elementi naturali come le zucche (i «costolati»), tutti «partono dall’antico – evidenzia David Landau, Trustee di Pentagram Stiftung – ma indicano il futuro. Zecchin è il Picasso del vetro, porta alla modernità». mostra sui tesori dei Maharaja al Victoria and Albert Museum di Londra. Come se andando a visitare i Musei vaticani decidessimo di collezionare opere di Raffaello...L’esito di questa «fortunata» passione è sotto gli occhi del visitatore, accompagnato nelle 5 sezioni di fuochi d’artificio da un allestimento (nel rispetto della struttura, ovvio) di effetto decisamente spaesante, data la collocazione nel Palazzo: grandi pareti nere illuminate a fessura per sottolineare la straordinarietà per dimensioni e fogge delle pietre di luce da 50 carati e oltre; al centro una cascata di frange metalliche crea una specie di aerea gabbia che ospita teche per gli oggetti preziosi più voluminosi.
Interessante notare, come ampiamente «prelevato» i migliori pezzi dei tesori indiani, si comincia a legare in platino e produrre gioie sotto l’influenza influenza estetica occidentale; si vedranno così – esposti in mostra e nell’ottimo illuminate catalogo Skira - gioielli di contaminazione europea. Ma il fascino non discreto di tanti bagliori non induca a credere che quei tesori fossero soltanto talismani di gratificazione per i potenti (rigorosamente maschi) che li indossavano/possedevano: ad majorem dei gloriam, tutto quel ben di dio alludeva alla luce divina, e talvolta, dalle pingui membra dei maharaja finiva per adornare le impassibili effigi delle divinità nei templi.