Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
«La gloria» di Berto e i dissidi senza fine dell’essere umano
Si può ogni volta ricominciare da capo, come se intanto la polvere dell’oblio avesse coperto le tracce del cammino percorso, o non conviene capire le ragioni delle incomprensioni, che pure ci sono state, ma anche riconoscere gli sforzi di intendere, di raccogliere le fila di un discorso che non è semplicemente «caduto nel vuoto»?
La riproposta della Gloria di Giuseppe Berto (Neri Pozza, con postfazione di Silvio Perrella) giusto un anno dopo la nuova edizione del Male oscuro mi è parsa sin troppo genericamente motivata per essere presa sul serio.
Allora Emanuele Trevi rimetteva in gioco il «capolavoro» dello scrittore di Mogliano seguendo il suo coraggioso attraversamento della depressione -la malinconia- con l’aiuto della psicoanalisi, persino sopravvalutato rispetto all’ironia dello scrittore «risanato».
Oggi Silvio Perrella -che del resto mai cita Berto nelle più che 500 pagine dei suoi Insperati incontri (Gaffi)- riduce il quinto vangelo di Giuda a una generica opera «di grande rilevanza stilistica e tematica», sulla quale graverebbe l’«ingiustizia descrittiva a critica» che è toccata al suo autore.
A me, invece, La gloria è parsa e continua ad apparire come il terzo e ultimo tempo di una severa riflessione esistenziale e morale sulla «scrittura» nel tempo della disperazione, quando l’uomo è costretto da una guerra che non ha fine a misurare la drammaticità della sua sconfitta rispetto al «male universale» che ha avuto la meglio. Berto, insomma, fa i conti con se stesso e i fondamenti della narrazione contemporanea specchiandosi nell’apostolo traditore -Giuda, appunto-, il quale nel tentativo di giustificare se stesso corre in aiuto di ogni altro scrittore offrendogli non la salvezza di una fedeltà ormai per sempre perduta, ma un destino più forte di qualsiasi individuale volontà, che trasforma il tradimento in un’umile e paziente ubbidienza, non tanto a qualche imperativo ideologico, quanto a un dover essere cui non si sfugge.
Lo scrittore novecentesco nelle pagine di Berto è prima di tutto il testimone di un’esperienza esistenziale che contro il «male universale» rivendica la sua sincerità e la sua autenticità, nonostante lo scacco con il quale ogni volta si conclude, sin dalla prima missione di guerra con la Colonna Feletti nel 1940.
La scrittura testimoniale diventa così l’unica resistenza al maligno per non arrendersi a un’angoscia colpevole e Berto, persino nei momenti di più dolorosa angoscia affrontò la pagina bianca con la coscienza di non avere alternativa, di doversi ancora una volta confrontare con un avversario più forte che lo avrebbe sconfitto, ma che a questo confronto non poteva sfuggire.
Quando, nel 1978, pochi mesi prima di morire di cancro, Berto si racconta come Giuda, tenta un bilancio che è insieme personale e generazionale, ma soprattutto è il bilancio di uno che ha dedicato la sua vita alla scrittura senza riuscire a vincere il male, ma anche senza mai arrendersi, che ha certamente «tradito» il suo dovere di testimoniare il vero senza cedere, tuttavia, alla tentazione di nasconderlo dietro le menzogne.
Insomma, la letteratura novecentesca in quest’ultimo libro di Berto è andata oltre la «morte di Dio», oltre la morte dell’arte e la stessa morte dell’uomo, riconoscendo che «la morte è Dio» e che l’uomo è condannato a non raggiungere il traguardo della verità, perché destinato a «tradire», vanificando ogni sforzo, ogni impegno, in un circolo vizioso che è peggio di un labirinto, più estenuante del supplizio di Tantalo o delle fatiche di Sisifo, ma che è l’unico fondamento di una morale, l’estrema difesa dal senso di colpa.
Luigi Baldacci scrisse quasi quarant’anni fa che nella Gloria (1978) si annunciava l’orfanità dell’uomo moderno, la sua condanna a vivere per la morte, ed è per questo che La gloria resiste al tempo che corre, al silenzio che vorrebbe sommergerla, alla dimenticanza dei lettori e quindi degli editori.