Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
La ballata di Bubola Spoon River di Caporetto
«Prima che mi dissotterrassero dalla tomba o, per meglio dire, dalla mia tana, sentivo le radici dell’olmo che mi solleticavano il collo, le spalle e gli avambracci, avvolgendomi tutto, come fa il ragno con la mosca. Le mie gambe erano lontane da me chilometri e non le sentivo più, prima di andarmene le avevo usate come le aste di un compasso per disegnare tutt’intorno un cerchio contenente la mia vita».
Se c’è un libro da leggere assolutamente nell’anno 2017 che segna il passo del centenario dalla rotta di Caporetto, dalla guerra e dai suoi orrori, quel libro è Ballata senza nome, che ha scritto per Frassinelli un grande poeta italiano come Massimo Bubola. È così, con la voce di tale Santo Pesavento, contadino di Terrazzo, provincia di Verona, morto sul Montello il 16 giugno 1918, che si apre questa Spoon River del conflitto, e nessuno ci aveva pensato finora, in tutta la memorialistica e i saggi più o meno imprescindibili che sono stati scritti, nel rivoltarsi sempre ideologico del dibattito storico, nella retorica: far parlare loro, i soldati che non ci sono più, narratori inventati e al tempo stesso veridici, realistici, con il genio della creazione artistica. Infatti Santo Pesavento, insieme agli altri dieci militi che parlano nel libro, non è mai esistito, o più esattamente non si chiamava così. È il frutto dell’ispirazione e della commozione di Bubola, della sua ricerca documentaria serrata, tra le lettere e i diari dei soldati, per costruire undici collage di vite che rassomigliassero il più possibile al vero. Siamo nell’antica basilica di Aquileia, è il 1921, la guerra è finita da tre anni. La scena di Bubola si apre su una donna, Maria Bergamas, alla quale come è noto venne affidato un compito unico: scegliere, tra undici feretri di soldati senza nome, provenienti da altrettante undici aree dove si era combattuto, quello che sarebbe stato portato a Roma per rappresentare, come milite ignoto, il sacrificio di un’intera nazione. Ma un attimo prima che la donna faccia la sua scelta, il narratore ferma il racconto. E nel tempo dilatato che ne segue lascia che si dipanino, in meravigliosi autoritratti, le storie di undici giovani uomini italiani, le loro vite, i loro luoghi d’origine, la guerra, le armi, il paesaggio e la natura. La lingua è lo strumento colto e sapiente che Bubola indaga da tanti anni: nato a Legnago nel 1954, ha al suo attivo una ventina di album da cantautore. A 24 anni ha iniziato la collaborazione con Fabrizio De Andrè con cui ha scritto gli album Rimini e L’Indiano, oltre a canzoni come Una storia sbagliata, Don Raffaè, ed è autore anche di Il cielo d’Irlanda, canzone portata al successo da Fiorella Mannoia, e di Rapsodia delle terre basse, un romanzo folk-rock ambientato nel Veneto degli anni Cinquanta, pubblicato da Gallucci. Tra le sue stelle polari, oltre al già citato Edgar Lee Masters, c’è il Borges delle Finzioni. In questo libro, frutto di una lunga empatia nutrita verso il proprio oggetto di studio, ha scelto volutamente un italiano elegante e pulito, terso. Anche se faceva parlare i soldati. «Un linguaggio basso aveva dei rischi. Un poeta deve usare una lingua atemporale, antica e moderna, altrimenti è un antropologo, un sociologo o uno studioso», dice Bubola al Corriere del Veneto. «Shakespeare non credo si sia mai preoccupato eccessivamente di come potesse parlare un bambino di dodici anni rispetto a un vecchio re. Tanta filologia la trovo più artefatta di una vera scrittura poetica. In realtà quello a cui ho mirato è un’emotività profonda. Il mio libro doveva avere un sound. Un suono della lingua, una lingua molto levigata e scelta in tranquillità». La Ballata senza nome è dedicata alla memoria del nonno, Silvio Bubola, cavaliere di Vittorio Veneto. Un uomo che nella vecchia casa della Bassa veronese, in una vecchia famiglia patriarcale, passava con i nipoti un tempo prezioso. «Si occupava di noi, ci portava in giro, ci insegnava i nomi degli alberi, degli uccelli, la pesca... E quando c’erano le feste agresti, la trebbiatura, i momenti importanti, si cantavano le canzoni della Grande Guerra. Le amava, quando era il momento di Monte Canino si emozionava, si copriva il volto, scappava nella stalla per non mostrarsi commosso. Della sua guerra non parlava volentieri. Era ancora scioccato dall’esperienza di essersi trovato a sparare a un altro essere umano. Aveva avuto visioni dantesche: sul Piave c’erano montagne di morti, alte tre piani. E quale impressione potessero produrre tali scene su quella gente timorata di Dio, rispettosa, non riesco a immaginarlo. Gente che al cinema non era mai stata, a teatro neanche, che non aveva elementi di finzione spettacolare che consentissero di relativizzare quella visione».
La ballata si chiude con la scelta di Maria Bergama: «Ho voluto che fosse un ragazzo che dai genitori non è stato amato, che dalla morosa è stato rifiutato. Perché Maria Bergamas era innanzitutto una madre. E una madre sceglie sempre il più debole».