Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
GENERAZIONI IN DEFICIT DI FELICITÀ
La crisi non è finita davvero, dice il sondaggio Lan. È vero. La crisi è qualcosa di più di qualche punto di Pil. La crisi è la sensazione mai provata da settant’anni, che il futuro sarà peggio del passato. Le crisi sono le famiglie con due stipendi che fanno fatica a mantenere due bambini, o rinunciano a fare il secondo. Le crisi sono i genitori di quella coppia, benestanti, che si intristiscono a pensare di essere indispensabili, a pensare alla pensione dei figli, che non basterà per far niente. Ai miei nonni era andata molto peggio, con i tedeschi davanti a casa; ogni generazione ha affrontato il suo futuro, lo faremo anche noi. È forse solo la generazione di mezzo, i baby boomers, a cui è andato (quasi) tutto bene, grazie al debito pubblico imbarazzante che ci lasciano.
Noi ce la faremo, comunque. Ma come? Ce la stiamo già facendo. Colpisce la scarsa percezione dei segnali importanti. Che ci sono. Le nostre imprese eroiche crescono, si sviluppano, i mutui sono bassi, c’è qualche concorso pubblico dopo anni. Eppure non basta. C’è una crisi che non si vede, che esclude; il Pil cresce solo per qualcuno, la classe media sparisce, gli stipendi evaporano. Si lavora il doppio per guadagnare lo stesso, di meno.
Le aziende hanno commesse appena per qualche mese, programmare è un atto di fede. C’è un disagio diffuso, rabbioso, fondato. Ma c’è, soprattutto, una tristezza, una cupezza inedita. C’è uno specifico europeo, il continente che invecchia.
Quando, tra Ottocento e Novecento, l’Europa ha tristemente invaso il mondo, gli europei erano quattro volte gli africani. Oggi gli africani sono cinque volte gli europei. Sono trasformazioni profonde, più grandi di noi, in cui c’è – che lo si voglia o no – anche il nostro futuro. Ma c’è anche un specifico veneto. Abbiamo chiuso con la felicità.
Dopo la straordinaria promettente giovinezza del secondo Novecento, mai troppo raccontata, viviamo una seconda adolescenza, capricciosa, poco lucida. Diamo la colpa agli altri. Non è così, non è nella nostra tradizione. Il Mose, la Pedemontana, l’inquinamento, le banche, non sono anche colpa nostra, di alcuni dei nostri? No, abbiamo questo transfert da quindicenni per cui è sempre colpa di qualcun altro. E così non siamo capaci di correggerci, ripensarci, se non in senso protettivo, perdente. Cosa vuole essere il Veneto da grande? Tra cinquant’anni? La risposta che stiamo dando è impaurita; più piccoli, più autonomi, più ricchi. Più felici? Non mi pare. Abbiamo ancora una ricchezza enorme, in questo tessuto vicino, flessibile, umano. Nella capacità di reinventarsi, non arrendersi. Nelle nostre città che sono dei gioielli, senza quasi periferie. Ma siamo noi che siamo diventati periferia. Non pensiamo più di competere con Milano, come abbiamo sempre fatto; guardiamo al Friuli, alla Carinzia, alla Slovenia. Nessuno si è sognato di portare l’Ema, l’Agenzia Europea dei Farmaci, a Verona. Nessuno ha detto niente. Ci piace così? Sogniamo il Veneto-Austria, il Veneto-Lussemburgo, il Veneto-Cipro. Un incubo: i nostri figli scapperanno, come già fanno. Rischiamo di rimanere quella regione in cui due aziende straordinarie si fanno concorrenza a cinquanta metri di distanza, finché non le compra tutte e due un’azienda tedesca. Piccolo è bello, sì, ma troppo piccolo no. Abbiamo un’occasione straordinaria. Inventarci un modello mai visto: tenere il buono di essere a misura, ma anche essere più forti, più internazionali, più uniti. Diciamoci la verità: la nostra politica ha prodotto risultati eccellenti nei servizi (e sarebbe difficile il contrario, vista la qualità delle nostre persone), ma negli ultimi vent’anni abbiamo perso tutto. Non abbiamo più banche, non abbiamo più editori, non abbiamo rappresentanza, quasi non abbiamo finanza. Per sopravvivere, dobbiamo fare miracoli. I 9/10 del residuo fiscale sono importanti, ma per fare cosa? Guardiamo più a Londra e meno a Klagenfurt.