Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Il Veneto surreale nella penna di Permunian
L’alluvione, i manicomi, la nebbia e i provinciali Il Saggiatore ripubblica i primi lavori del surrealista polesano
In manicomio, è riuscito ad infilarsi. In quel mondo a parte che era l’ospedale psichiatrico di Brusegana a Padova: per capire com’era un’altra visione della realtà, lui che la realtà la viveva solo per andare oltre scrivendo. Francesco Permunian non era matto, ma con una discreta accettazione del dottor Ludovico Paternello si «autoricoverava». E ascoltava, vedeva, capiva: le cure, i farmaci come bombe sui pazienti cavia, i letti di contenzione, l’ergonomia che faceva produrre sedie e sedie per la basilica del Santo, la prigionia appena scalfita dai primi precetti basagliani, le prime pattuglie di drogati che varcavano la soglia.
Metà degli anni Settanta, lo studente di lettere Permunian crede nella poesia come unica forma alta di letteratura, ma se va nel gorgo buio della psiche vuol dire che già allora non è scolastico. Non lo sarà mai: altro, solitario, defilato per non dire nascosto, lui e le sue carte, foglietti, appunti, abbozzi sparsi sul tavolo all’alba, ad inseguire parole e frasi lungo gli anni, quasi trenta prima che diventassero pagine e libri.
«Ho pubblicato la prima cosa, Cronache di un servo felice, a 48 anni e mezzo». Merito di Marco Vicentini e di Meridiano Zero, l’intuizione di un piccolo editore entusiasta dopo 32 rifiuti: no da Mondadori, Rizzoli, tutti. Apperò, dissero subito dopo i critici, Maria Corti in testa, e quelle sessanta copie mandate nelle redazioni dei giornali fecero nascere un caso mediatico e letterario. Così Francesco Permunian è diventato non solo scrittore, ma letterato, di quelli “alti”, “scelti”, infinitamente sopra la massa che pubblica a valanga per moda o convenienza commercial/ intellettuale. Un matto? Non si può più dire, in ogni caso. Ma uno speciale sì, uno che si chiama fuori, dalle mode, dalle scuole di scrittura, da quelli «con il culo d’oro», e scrive distillando il dna sottoproletario, quello della campagna veneta più sfigata delle terre basse verso la foce dell’Adige, sempre sott’acqua da secoli, alluvione dopo alluvione. Un posto dove il poco grano si misurava a litri e non a quintali, tant’era a mollo; un posto dove le quattro case e basta della corte dei Labia non avevano strada per andare da altre parti, e se la nonna si ammalava bisognava caricarla sul carro con i buoi e andare per l’argine fino a trovare dove arrivava l’ambulanza per Cavarzere. Permunian è nato a Lezze proprio nell’anno, il 1951, della grande rotta del Po. Dice: «Sono cresciuto in un Far West umido».
Cresciuto in una storia di sapore neorealista (genitori giovanissimi, lei cattolica, lui comunista, nascosti e fuggitivi dalla società intorno e dalla nebbia, «oggi hanno 84 e 87 anni e sono dolcissimi») che meriterebbe d’essere scritta. Ma non da lui, che scrive diverso, non è un romanziere, «neanche adesso», perché «metto piedi nella realtà ma non lo faccio in maniera realistica».
Ascoltiamo: «Quando comincio a scrivere mi si deforma tutto, e invento. Succede la mattina presto, nel silenzio di quelle ore, quando mi si affollano ancora in testa i fantasmini della notte. In quei momenti sono vagotonico, poi la pressione sale, divento come tutti, così più tardi non scrivo, nel pomeriggio mai e poi mai». Quei fantasmini hanno dato vita a pagine di lucidità acre, sentimenti mortiferi, personaggi lapidati dai giudizi: un mondo dove dolore e cattiveria non compongono un “noir”, ma la condizione umana. Confessa Permunian: «Sono allucinato dalla mancanza di ogni fede, dal sentimento del niente verso cui tutto va».
Per questo «devi crearti una surrealtà, dettata dalla necessità di sopravvivenza, non dalla superbia. Ecco, mi definirei uno scrittore surrealista, dove i personaggi sono maschere di un balletto». Non necessariamente una danza macabra: «Ma no, in fondo sono uno scrittore comico, e i comici usano la tragedia ed il grottesco». Come Bruno Schulz, lo scrittore ucciso con una pallottola in testa dai nazisti nel ‘42, «la mia stella polare».
Per cui è un errore scambiare il racconto di Permunian come un ritratto del mondo veneto, anche se di quello si parla, anche se le radici sono tutt’altro che tagliate: perché in ogni caso il ritratto è surreale.
E poi scopri che il Permunian degli anfratti mentali e delle visioni ti parla quasi allegramente: ma è già mattina tardi, è uscito dalla notte e torna a vivere sul Garda, sta a Desenzano dove ha fatto il bibliotecario per una vita, è in pensione-Fornero da sei anni e vive «in questa metropoli che non è città, dove parlate e genti sono mischiate dall’acqua che le tocca, i veneti, i bresciani che erano veneziani, i trentini, e d’estate il trenta per cento di tedeschi, e adesso gli immigrati: qui stanno gomito a gomito trenta etnie. È come un campiello».
Si scrive di Permunian perché c’è una notizia. Il Saggiatore ripubblica i suoi due primi lavori, Cronache di un servo felice e Camminando nell’aria della sera in una nuova edizione intitolata Costellazioni del crepuscolo, arricchita a far cerniera tra i due da una specie di zibaldone di appunti preparatori, idee, scritti volanti: quelli dei foglietti sparsi all’alba sul tavolo, sul pavimento, sui ripiani della libreria. Una specie di bottega dello scrittore, con una prefazione illuminante di Salvatore Silvano Nigro. I due libri erano introvabili, e valgono ancora perché la scrittura di Permunian è di quelle che restano e resistono, come il suo posto sicuro nella letteratura. Si diceva: la sua prosa è strumento di sopravvivenza, alla condizione umana e al dolore. Gli è morta una figlia piccola dal nome bellissimo, Francesca Benedetta Cecilia; gli è morta un anno dopo la moglie; c’è per fortuna l’altra figlia, Benedetta anche lei. Il dolore è stato distillato e trasposto, seguendo il consiglio di Andrea Zanzotto: «Non devi scrivere con le lacrime, ma con il ricordo delle lacrime». Permunian ci è riuscito, oggi toglie la polvere al suo scrivere allucinato e ci riesce ancora.
E bisognerà per forza ricordarsi di lui, magari fra due anni, quando sarà pronto Erbe matte. Che è un’altra storia storia allucinante, soprattutto per chi l’ha vissuta: quella delle violenze pedofile subìte per trent’anni dai piccoli ospiti dell’istituto veronese per sordomuti «Antonio Provolo». C’è un’inchiesta della magistratura in corso, ma ci sarà il libro di Permunian, alla sua maniera: ci sta lavorando da anni, come tredici anni ci erano voluti per il «Servo felice». Tra breve, se la pubblicano, un’anticipazione sulla rivista iperpatinata Lampoon, uno strano posto: «Vogliono, in questo mondo di plastica, qualcosa che li turbi». Eccome, se lo avranno.