Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Marino Marini Passioni etrusche alla Guggenheim
Peggy Guggenheim li teneva all’ingresso del suo palazzo sul Canal Grande. Era fiera dei suoi libri d’ospite e desiderava che tutti li firmassero. Fra i primi a lasciare un disegno, nel 1949, fu lo scultore Marino Marini, che tracciò lo schizzo di un cavallo, nella stessa pagina in cui troviamo pure la firma dello scrittore Giuseppe Berto. Una grande affinità elettiva quella tra Marino e Peggy. La collezionista americana scelse l’Angelo
della città (1948) del maestro pistoiese per collocarlo nella sua dimora veneziana, posta sulla terrazza e tra i cancelli di Ca’ Venier dei Leoni (dove tuttora si trova) a far da incipit ai capolavori di Magritte, Picasso, Dalì, Pollock. Assume un sapore particolare la mostra «Marino Marini. Passioni visive», alla Collezione Peggy Guggenheim da oggi all’1 maggio, a cura di Barbara Cinelli e Flavio Fergonzi, con la collaborazione di Chiara Fabi.
«L’Angelo - sottolinea la direttrice della Guggenheim Karole Vail - fu una delle prime opere acquistate da Peggy in Italia; è una delle opere-simbolo del museo». Seconda tappa dopo Palazzo Fabroni a Pistoia della prima retrospettiva mai realizzata dedicata a Marini (1901-1980), la rassegna - organizzata insieme con la Fondazione Marino Marini, col sostegno di Lavazza presenta oltre 70 lavori scultorei di cui una cinquantina di Marino accanto a 20 opere, dall’antichità al ‘900, dagli etruschi a Moore passando per il Rinascimento. Gli iconici «Cavalieri», le «Pomone» e i nudi femminili, i festosi «Giocolieri» e gli straordinari ritratti che trasudano umanità in un percorso tematico che intende reimmettere questo scultore considerato un caso e un mito a sé all’interno della storia dell’arte del ‘900: «Non si può rinchiudere Marini – marcano i curatori - nel topos di “Cavalli” e “Pomone”. La sua opera mette insieme ricchezze tecniche, iconografie e soluzioni».
Si parte con Marini e l’archeologia. Una testa greca proveniente da Selinunte e un busto rinascimentale di Andrea Verrocchio sono fonte di ispirazione del Prete (1927), che nella scelta del materiale utilizzato, la cera, non può non fare venire alla mente Medardo Rosso. La terracotta Popolo (1929) rimanda agli etruschi: la curiosità è che negli anni Cinquanta Marini decide di mutilarla per sottrarre elementi troppo naturalistici, segno dell’evoluzione che nel frattempo aveva avuto lo scultore. Quattro capolavori per raccontare i nudi virili degli anni Trenta: il Nuotatore (1932) e il Pugile (1935) di Marini, David (1938) di Giacomo Manzù e Tobiolo (1933) di Arturo Marini. Nell’Icaro (1933) sospeso, le influenze etrusche non ci sono più, è una contemporaneità architettonica ad avere il sopravvento.
Tra le opere più belle in mostra l’esile Giovinetta (1938), che guarda all’imponente Pomona (1940), e Susanna (1943). La lezione di Rodin, riferimento cruciale nel percorso di Marini, è presentata con tre coppie di opere a paragone che mostrano il rapporto che li univa nella dinamica delle forme. Ecco Cavallini e Cavalieri, nelle tante declinazioni. C’è pure quello del 1947 che venne utilizzato da Billy Wilder in una scena del film Sabrina, a dimostrazione del grande successo di Marino negli Usa nel dopoguerra. Nei ritratti Marini fu un innovatore. Carlo Cardazzo o di Igor Stravinskij, nei volti inseguiva quella alterazione fisiognomica che gli altri non vedevano, andava alla ricerca del nascosto. La serie dei «Giocolieri» è posta accanto a bronzetti etruschi e a figure stanti di Henry Moore; nel Guerriero (1958-59) si intuisce l’interesse di Marini per l’informale; per finire con un cortocircuito Picasso-Giovanni Pisano-Marini dove la tradizione antica toscana e le soluzioni più sperimentali picassiane aprono in Marini traguardi inattesi.
La mostra Alla Collezione Guggenheim la retrospettiva dello scultore pistoiese. Il suo «cavaliere» è uno dei simboli del museo