Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Pozzobon, l’aspirante combattente rapito dai terroristi anti-Isis in Siria
Un’inchiesta di Milano svela che l’imprenditore trevigiano, partito per arruolarsi nello Stato Islamico, è stato catturato dai miliziani di Al Nusra: «Lo credono una spia». Il nascondiglio sulle montagne
Fabrizio Pozzobon, l’imprenditore di Castelfranco scomparso dal dicembre 2016, sarebbe tenuto prigioniero dai miliziani di Al Nusra sulle montagne della Siria, dove si era recato per arruolarsi nell’Isis.
Scambiato per una spia, rapito e tenuto prigioniero sulle montagne siriane. Sarebbe questo il destino capitato a Fabrizio Pozzobon, l’imprenditore di Castelfranco Veneto con un passato di militanza nelle fila della Lega Nord.
È quanto emerge dall’ordinanza del tribunale di Milano che ha portato all’arresto di un egiziano residente in Lombardia e a un mandato di cattura nei confronti di suo figlio, nato in Bosnia. Sarebbe stato proprio quest’ultimo a rivelare, in alcune intercettazioni, di essere entrato in contatto con Pozzobon. La fuga in Siria
Un passo indietro. Il trevigiano, 52 anni, titolare di una ditta di termoidraulica, aveva lasciato casa e familiari nel dicembre del 2016, per raggiungere la Turchia. In tasca il biglietto di rientro, fissato per febbraio. Dal giorno del suo arrivo a Istanbul ha inviato una manciata di messaggi ai conoscenti rimasti in Italia. «Tutto bene qui», scriveva. E poco altro. Fino alla foto arrivata nel telefonino di un amico, che ritraeva Pozzobon sorridente ma, sullo sfondo, i palazzi di una città bombardata.
L’immagine aveva attirato l’interesse della procura antiterrorismo di Venezia e dei carabinieri del Ros di Padova che non hanno impiegato molto a scovare i suoi profili Facebook, dove l’imprenditore pubblicava foto di donne velate e, soprattutto, seguiva i gruppi gestiti dai sostenitori dello Stato Islamico, come quello «intitolato» a Jahidi John, il giovane britannico noto come il «Boia dell’Isis». Dalle indagini è emersa la strana figura di questo trevigiano che frequentava la chiesa del paese ma che negli ultimi tempi non faceva mistero della sua indignazione per come alcuni Stati agivano nei teatri di guerra. Per gli inquirenti potrebbe quindi rientrare nella categoria di coloro che si sono avvicinati all’Isis non per motivi religiosi ma per «vicinanza alla causa»: quella di opporsi all’Occidente. Una personale battaglia ideologica, insomma.
Il sospetto è che dopo il suo arrivo a Istanbul si sia spostato verso il confine turco per poi entrare in Siria con l’intenzione di arruolarsi nello Stato Islamico. E la conferma arriva ora dall’indagine coordinata dalla procura di Milano. Le carte dell’inchiesta
L’ordinanza del gip Carlo Ottone de Marchi ha portato in carcere Sayed Ahmed, 51 anni, un immigrato egiziano che abitava con moglie e figli in provincia di Como. Ricercato, invece, il figlio di 23 anni, Saged, che manca dall’Italia dal 30 giugno 2014, quando ha raggiunto la Siria per unirsi alle milizie di Nour el Dine al Zenki, una brigata di matrice terroristica vicina ad Al Nusra, i «partigiani della Grande Siria», un gruppo armato jihadista salafita nato come «costola» di Al Qaeda con il proposito di rovesciare il governo di Assad. Nonostante il comune odio nei confronti dell’Occidente, tra i combattenti di Al Nusra e quelli dell’Isis non corre buon sangue. E a farne le spese potrebbe essere stato proprio Pozzobon.
A spingere (e finanziare) l’avventura siriana di Saged, secondo l’antiterrorismo sarebbe stato il padre. Ed è stato proprio quest’ultimo che, per allontanare i sospetti da sé, nel febbraio 2017si è presentato in questura a Como per raccontare di quel figliolo che aveva voluto a tutti i costi diventare jihadista. E aveva anche spiegato che Saged «era stato incaricato di svolgere la funzione di interprete, dalla lingua araba all’italiano, tra i componenti di un battaglione e un cittadino di origini venete catturato in quel periodo». Per il gip non c’è alcun dubbio: «Il cittadino italiano in oggetto è stato identificato in Fabrizio Pozzobon». Il covo sulle montagne
Nell’ordinanza di arresto si ricostruisce quanto sarebbe accaduto: dopo l’ingresso in Siria, l’imprenditore trevigiano è stato catturato in un villaggio poco lontano dal confine turco, dagli uomini di una brigata di Al Nusra. Rapito e tenuto nascosto «in un luogo montuoso non meglio definito», perché «ritenuto una spia» e per poterlo «eventualmente utilizzare nella mediazione di scambio di prigionieri con le truppe governative siriane o per chiedere un riscatto alle autorità italiane». È a questo punto che era entrato in gioco Saged - nome di battaglia (che usava per pubblicare le sue foto su Facebook) «Baraa l’egiziano» - chiamato dai «fratelli» dell’altra brigata per partecipare, come traduttore, agli interrogatori del prigioniero. Neppure il 23enne - stando a quanto ha raccontato nelle telefonate al padre - sa di preciso dove si trovi il covo, perché «veniva condotto sul posto incappucciato al fine di impedirgli di individuare il tragitto, che veniva percorso effettuando diversi cambi auto».
Le tracce di Pozzobon si perdono nel giugno del 2017, quando Saged informa il padre di essere stato allontanato dalla brigata a cui apparteneva per aver manifestato troppo apertamente le sue simpatie nei confronti dell’Isis. La telefonata viene intercettata. Il genitore gli chiede «se sia possibile vedere la questione di quest’uomo, se ci sono novità...». E lui assicura «Non ci sono novità». Per gli inquirenti è la conferma che «a seguito dei contrasti che si erano venuti a creare, Saged non faceva più l’interprete e non era più informato su quanto occorso a Pozzobon».
Il giudice di Milano Pozzobon è tenuto prigioniero per poterlo eventualmente utilizzare nella mediazione di scambio di prigionieri con le truppe governative siriane o per chiedere un riscatto alle autorità italiane