Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
«Metodo Dikul, il malato se lo paghi»
La Cassazione dà ragione all’Usl: non è salvavita, il Sistema sanitario non lo sostenga
Dopo «Stamina» la Corte di Cassazione riapre il dibattito su terapie non scientificamente provate ma efficaci. L’Usl 6 Euganea ha presentato ricorso contro una sentenza della Corte d’Appello di Venezia, che nel 2011 stabiliva che un paziente con una grave lesione spinale dovesse avere il diritto di curarsi con il metodo sperimentale «Dikul». La Cassazione è di altro avviso: anche se il metodo ha funzionato, il sistema sanitario non può farsene carico.
PADOVA Una sentenza della Corte di Cassazione riapre ancora una volta il dibattito su ciò che è scientificamente provato e ciò che, pur non avendo evidenza scientifica, semplicemente funziona.
A sollevare il caso alla Suprema Corte è stata l’Usl 6 Euganea che ha presentato ricorso contro una sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Venezia nel 2011, la quale stabiliva che un paziente con una grave lesione spinale dovesse avere il diritto di curarsi con il metodo sperimentale «Dikul» pagato dal Sistema sanitario nazionale. L’Usl quindi doveva garantire al malato una cura non approvata dalla comunità scientifica internazionale ma comunque in grado, come certificato dai periti e consulenti, di migliorare sensibilmente le sue condizioni di salute. Ebbene la Cassazione è di altro avviso: anche se il metodo ha funzionato, il sistema sanitario non può farsene carico, in quanto non è una cura salvavita, quindi il paziente se vuole deve curarsi da solo.
Il dibattito sul grado di efficacia del metodo «Dikul» è controverso. Si tratta di una fisioterapia particolare che prende il nome del suo ideatore, un trapezista russo che negli anni ’60 cadde dall’altezza di 13 metri. Dopo aver riportato una grave lesione spinale che lo costrinse in sedia a rotelle, Dikul mise a punto una serie di esercizi quotidiani che lentamente lo portarono a rinforzare i muscoli fino al punto da riuscire in parte a sopperire al deficit neurologico. Che gli esercizi del metodo «Dikul» funzionino lo testimoniano in molti. A Firenze c’è un centro sperimentale che offre questo servizio ma è costoso: una terapia che porti a un risultato apprezzabile costa al paziente almeno 30 mila euro, gli esercizi sono lunghi e complicati e vanno fatti per almeno cinque o sei ore al giorno. Dopo vari passaggi a favore dei pazienti in primo e secondo grado, il nodo sta arrivando alla Cassazione, che sta accogliendo uno dopo l’altro i ricorsi delle Usl. Valutando il caso specifico del paziente padovano gli Ermellini riconoscono che il paziente ha avuto apprezzabili miglioramenti. La Corte non può infatti non prendere atto che ben due giudizi, in primo grado e in Appello, avevano dato ragione al malato che si era rivolto alla magistratura civile per veder riconosciuto il proprio diritto a fare una cura (che per lui funzionava) non pagandola di tasca propria. Nel 2011 l’Usl 6, affiancata dagli avvocati Bruno Cossu e Maria Luisa Miazzi, aveva fatto ricorso in primo grado per annullare i pagamenti, ma i giudici hanno sempre dato ragione al malato. Eppure sulla scienza non ci sono grandi interpretazioni: se a un metodo di cura è potenzialmente efficace per tutti allora il sistema pubblico lo può fornire, se non è così deve rimanere a carico del privato.
Il caso giudiziario della fisioterapia «Dikul» ricorda molto quello di «Stamina» che anni addietro destò clamore mediatico perché sembrava potesse aiutare a guarire dalla Sla o da altre malattie neurologiche. Ma a differenza del metodo «Stamina», il metodo «Dikul» vede tra i suoi sostenitori molti medici che rilevano la sua efficacia in termini di risultati, ma si basano su valutazioni che riguardano un paziente per volta. In definitiva manca del tutto uno studio scientifico complessivo. «Ai fini dell’erogazione della terapia del sistema sanitario si tratta, insomma, di due requisiti che coniugano le diverse esigenze concernenti la sfera dalla collettività e la tutela individuale (…) scrivono gli Ermellini -: da una parte ci sono i condizionamenti derivanti dalle risorse finanziarie di cui lo Stato dispone per organizzare il servizio sanitario da una parte e il nucleo irriducibile del diritto alla salute come ambito inviolabile della dignità umana dall’altra».
Pertanto infine si legge che «la Corte accoglie il ricorso (dell’Usl), cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta l’originaria domanda e compensa le spese del giudizio di merito».