Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
La fine di Cadorna, i baby dottori, le campane a festa
Padova ha avuto un ruolo di primo piano nei capitoli salienti e nelle strategie di allora
Padova è un concentrato di storia della Grande Guerra: Diaz, nell’ottobre 1917, sostituì Cadorna a Palazzo Dolfin Boldù, mentre a Palazzo Papafava venne allestito il comando della missione francese. Visto il flusso ingente di truppe, fu necessario formare velocemente dei medici: gli studenti del quarto anno di Medicina saltarono esami e tesi per fare pratica direttamente sul campo.
Trincee scavate lungo gli altopiani vicentini, forti che costeggiano le vette dolomitiche, lunghe attese negli appostamenti in pianura. Quando si nomina la Grande guerra, il pensiero vola alla montagna, teatro delle infinite marce dei fanti, oppure alle gallerie scavate sulle montagne venete, dove ancora oggi restano, a imperitura memoria delle vittime, i cimiteri e i sacrari di guerra.
Eppure anche le città, e Padova in particolare, hanno rivestito un ruolo di primo piano nella Prima Guerra Mondiale. Quando, infatti, l’esercito italiano venne sbaragliato a Caporetto, il 24 ottobre 1917, gli alleati su richiesta del re inviarono in Veneto alcune divisioni francesi e inglesi, chiedendo però in cambio la sostituzione di Cadorna con Diaz al Comando supremo delle forze armate. E a fare da sfondo a un teso incontro tra i due generali, nella tarda serata dell’8 novembre, fu Palazzo Dolfin Boldù, in corso Vittorio Emanuele II, di proprietà di Dolores Branca e Paolo Dolfin Baldù, famoso per aver realizzato nel pian terreno un museo in cui erano esposti i suoi trofei di caccia grossa. Cadorna risiedeva, infatti, qui da qualche giorno, e qui ha ricevuto la ferale notizia della sua rimozione. E sempre qui, il 27 novembre, si sono installati gli uffici del Comando supremo.
E mentre Diaz si insediava nel palazzo di corso Vittorio Emanuele II, nel settecentesco Palazzo Papafava, nel cuore del ghetto, venne allestito il comando della missione francese. Ed è proprio nel salone d’onore del palazzo che decine di volontarie confezionavano le divise per i militari da spedire poi al fronte. Un impegno, quello della signora del palazzo, Maria Papafava, che al termine della guerra le valse la croce di guerra al merito e la Reconnaissance française.
Era invece l’istituto d’arte Selvatico il cuore pulsante dell’università castrense: un nome che rimanda ai castrum, gli accampamenti militari romani, e che infatti indica l’università militare. Perché se, dal punto di vista umano, la Grande Guerra è stata una tragedia immane che ha provocato milioni di morti tra soldati e civili, dal punto di vista medico è stata una grande opportunità di imparare tecniche moderne. Il costante afflusso di soldati dal fronte ha reso urgente la formazione di nuovi dottori, così tutti gli studenti del quarto anno di Medicina frequentarono corsi accelerati all’interno del Battaglione universitario, reparto che seguiva quelli dei soldati nelle retrovia.
Circa 500 giovani, assistiti dai docenti del Bo e da professori richiamati da atenei di tutto il Paese, diventarono medici, senza dover discutere la tesi, ma con una specializzazione conquistata direttamente sul campo. Strutture civili furono adeguate per ospitare i nuovi dottori e i loro pazienti di ritorno dalle zone calde del fronte: e così l’atrio del Selvatico fu trasformato in sala anatomica, mentre nei locali universitari di via Loredan e nella scuola Ardigò di via Agnusdei furono trasferiti gli ospedali militari.
Dopo tre anni di guerra, disperazione e devastazione, è ancora Padova a ospitare una tappa fondamentale, l’ultima, del conflitto: la firma dell’armistizio che, il 3 novembre 1918, ha sancito la deposizione delle armi da parte delle truppe austriache a Villa Giusti, piccola villa alle porte del capoluogo, sulle rive del canale Battaglia, in quella che ancora oggi viene chiamata via Armistizio.
Una villa anonima, defilata, ma sufficientemente tranquilla per ospitare in tutta segretezza la delegazione di Vienna che, tenendosi in contatto via telegrafo con l’imperatore, venne incaricata di accettare l’ultimatum italiano. Un epilogo che fu subito chiaro ai padovani, grazie alla bandiera italiana issata su un albero del cortile e al suono festoso delle campane della parrocchia vicina.
La grande festa Dopo la firma del 3 novembre, spuntò la bandiera italiana nel cortile di Villa Giusti