Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
«SALGAREDA E IL MIO PEZZO DI PARADISO SUL PIAVE»
È un testo quasi sconosciuto, la prefazione alla guida di Noventa di Piave che Goffredo Parise scrisse nel 1980. Giovedì un incontro a Noventa di Piave ricorderà il grande scrittore vicentino.
Cricco o Crico? Crico. Anche in questo caso il nome «agì» per dirla con Montale. «Crico, un nome che proviene da Noventa di Piave». Vicenza, 1942, fu una mia compagna di scuola, che mi disse queste parole e I’ associazione Crico - Noventa di Piave o fiume Piave apparve per la prima volta.
Un testo poco noto dello scrittore vicentino nell’anniversario della morte. Giovedì un incontro
Pubblichiamo la prefazione di Goffredo Parise al volume «Una terra ricca di memorie. Noventa di Piave» di Dino Cagnazzi, Giampietro Nardo e Luigi Bonetto, edito dall’amministrazione comunale di Noventa di Piave nel 1980. Un testo poco noto, pressoché sconosciuto, dello scrittore vicentino che sarà ricordato giovedì 30 agosto alle 18, il giorno precedente all’anniversario della morte avvenuta nel 1986 all’età di 56 anni. Nella piazza grande dell’outlet di Noventa di Piave (Venezia) è previsto l’incontro «Per una cultura senza confini»: parteciperanno lo scrittore e poeta Nico Naldini, il fotografo Lorenzo Capellini, lo storico di Noventa di Piave Paolo Fogagnolo e Tommaso Tommaseo Ponzetta, medico e grande amico dello stesso Parise. Modera il giornalista del «Corriere del Veneto» Alessandro Zangrando. L’iniziativa è promossa dai Comuni di Noventa di Piave e di Ponte di Piave con il supporto dell’outlet e il patrocinio della sezione di Treviso dell’ente Nazionale Sordi. Gli interventi della serata saranno tradotti nella lingua italiana dei segni nell’ambito di un progetto del Comune di Ponte di Piave con il contributo della Regione Veneto. L’incontro è gratuito e aperto a tutti.
Cricco o Crico? Crico. Anche in questo caso, come sempre, il nome «agì» per dirla con Montale. «Crico, un nome che proviene da Noventa di Piave». Vicenza, 1942, fu una mia compagna di scuola, di nome Bita Crico, che mi disse queste parole e l’associazione Crico - Noventa di Piave o fiume Piave (caro alla Patria) apparve per la prima volta nella mia vita. Era una ragazza dai capelli molto rossi, carota, piena di lentiggini, molto graziosa, graziosissima, che diede questa spiegazione. Era figlia di un farmacista che aveva il più bel negozio di farmacia della città, a Piazza delle Erbe, a tre metri dal colonnato palladiano della Basilica. E diventammo carissimi amici. Il padre morì a Mathausen.
Passarono parecchi anni e assieme a Mario Soldati conobbi Giacomo Noventa, a Milano, e le sue poesie. Poi la figlia. Ma non avevo ancora visto Noventa di Piave. Questo avvenne nel 1963, di passaggio per Jesolo. La vidi in un lampo dell’occhio, un campanile che segnava, contrariamente a molti altri l’ora esatta. E fu tutto.
Nel 1970 misi insieme, a pochissimi chilometri da Noventa una casetta quasi sulle sponde del Piave. Come avvenne? Lo racconto.
Avevo un amico, Guido Caretta, agricoltore, a Ponte di Piave, che conoscevo da una decina d’anni. Spesso andavo a trovarlo. Un giorno si decise di fare una passeggiata a cavallo sul Piave. Traversammo un vasto pioppeto, ora scomparso, ed entrammo in una radura abbandonata dal 1966, anno dell’ultima grande alluvione, con un rudere, stalla o casetta che fosse, immersa nella vegetazione. C’erano molti alberi di gelso e strani frutteti selvatici colmi di frutta, viti clinton, fagiani sopravvissuti alla caccia che saltavano da sotto gli zoccoli dei cavalli cocoritando e innalzandosi verso campi di granoturco poco lontani. C’era un ponticello su un rigagnolo e poi una vasta, selvaggia vegetazione simile a quella tropicale, fino all’acqua del Piave, azzurra limpidissima e gelida. Si guadava il Piave e ancora tra ghiaia abbacinante si risaliva su altre piccole isole popolate di fagiani, di starne, di merli. Grandi fiori gialli a prati parevano nascosti dalla civiltà e più di una volta si aveva la sensazione di un luogo disabitato e sconosciuto, una specie di Eden a forma di labirinto, con suoni e rumori «classici» dell’eden: pigolii, frusciare tiepido di vento, acque immacolate, muschio, animali, frutta, erbe profumate.
Il luogo mi incantò. Tornai il giorno dopo da solo e ascoltai gli uccelli e i loro rumori. Dissi a Guido: «se lo vendessero per (dissi una cifra irrisoria) lo comprerei subito». Poi partii per Roma e non ci pensai più. In sogno il luogo riapparve, come qualcosa che mi stava sotto, cioè nell’inconscio, per avere, come è stato dimostrato, molta parte nella mia vita. E con il luogo nel sogno, nell’inconscio della parte conscia invece apparve Guido con una telefonata a sorpresa; aveva ritrovato il padrone, un vecchio che stava all’ospizio, avrebbe venduto per quella cifra irrisoria, il contratto era pronto, bastava andare dal notaio a Oderzo. Ebbi un attimo, solo un attimo di esitazione. «Perché? - mi dissi perché? a che mi serve se non a contemplarlo? E poi non è reale, è un luogo fuori della realtà, è I’ inutile regia di creare un ambiente ma non un luogo». Tuttavia presi l’aereo, firmai il contratto, diventai proprietario e, tramite il geometra Bonora di Salgareda, trovai un’impresa per mettere un po’ a posto quel fienile, quella casetta. L’impresa, guarda caso, era di Noventa di Piave, Dal Ben, un ottimo Dal Ben che ricostruì, ampliò e fece tutto quello che volevo nel giro di tre mesi. A Natale, con gli intonaci e i colori ancora umidi vi dormii la prima volta.
Da quel momento, Natale 1970, abitai a vari intervalli, ma quasi ininterrottamente, la casa e il luogo fatati. Venne la primavera e con essa le migrazioni e l’upupa che costruì il suo nido a un metro dalla mia casetta, a nord. Per guardarlo feci aprire un finestrino sopra il letto, all’altezza degli occhi. Cominciai ad ascoltare attento gli usignoli, uno di qua, uno di là del Piave che di scambiavano gorgheggianti romanze d’amore: un fenomeno canoro che ho tentato invano di vedere direttamente dalla gola di quegli uccelli invisibili, Apparvero sul grande prato davanti alla casa, all’alba, le lepri che danzavano stranamente, ritte in piedi una davanti all’altra, ispirate dall’estro amoroso. Poi il cuculo, costante come un orologio, e il chiù, il picchio, le rane. Un grosso gufo entrò nel camino e si rintanò per casa, negli interstizi di una finestra le api, a maggio, formarono il loro nido ronzante.
Quella primavera mi dedicai alla caccia di rane, la notte. Di giorno, con il passare della stagione primaverile e l’arrivo dell’estate ero sempre sul fiume, a cavallo o a piedi. Piano piano cominciavo a conoscere anche gli angoli di questo fiume o torrente (torrente fino a pochi metri dalla mia casa e in seguito fiume), isole, isolette, ghiaioni immensi, pozze verdi-azzurre e profonde di acqua gelida, pescatori, tipi di pesce, tracce di bracconieri, buche, tane.
Ero felice.
Quando andavo verso il mare mi fermavo a Noventa e ancora mi fermo sempre in due punti del paese, affascinanti, molto affascinanti e spiegherò il perché. C’è un piccolo arco che porta al Piave, un tempo porto fluviale, un vecchio sottopassaggio di mattoni che mi ricordava un arco consimile in Cina, che anche lì portava a un fiume, un fiumiciattolo dentro l’antica città di Souchow. Ma qui, a differenza dalla Cina, agivano l’inconscio e i ricordi. Non pensavo e non penso ma appunto I’ inconscio agisce. «Bita - mi pare di sentire che dico a me stesso - il
padre di Bita, Mathausen, la guerra, le fucilazioni». Ed ecco che quel luogo, quel ponte, diventa lo scenario di un film neorealista dove avviene una fucilazione. Una perfetta inquadratura neorealista, da Rossellini. E al tempo stesso, per una sorta di marasma dell’immaginazione un terrain vague per giochi di ragazzi. Di là dell’arco immaginavo (ed è) un topos, un luogo assolutamente tipico per giochi di ragazzi, per fuochi accesi d’autunno, accanto al fiume. Terreno dell’infanzia, terreno loro. Ancora oggi ci vado spesso: attraverso l’arco e il territorio dell’infanzia si impadronisce di me.
Altro luogo che esprime lo stesso significato è una chiesa sconsacrata, dietro quella vera e propria consacrata: ci deve essere una fabbrica e come è noto per ragioni di topografia culturale, la chiesa sconsacrata è un altro luogo per ragazzi (vedi film di Vigo eccetera) è soprattutto per me che ho immaginato molte scene del mio primo romanzo Il ragazzo morto e le comete in luoghi accanto a un fiume e a una chiesa sconsacrata. Per me, che non sono del luogo, Noventa di Piave è tutta lì, in quei due luoghi, appunto topoi fantastici. La realtà sta altrove, ma come è noto, uno scrittore preferisce la suggestione fantastica alla realtà. Tuttavia se devo per un attimo «fissarmi» alla realtà, questa sarà non già gastronomica, come si può rintracciare alla «Consolata» o alle «Guaiane» bensì legata alla materia prima che, strano a dirsi, è il pesce. A Noventa di Piave si trova il più bel pesce che io abbia mai visto, freschissimo e ricchissimo. Non a Venezia, non a Mestre. Ci vado apposta, due volte per settimana, pesce così non ne ho visto in nessun luogo e ostriche e frutti di mare e una «frittura mista» e un odore, quell’odore di mare, di alto mare, di mare profondo nel mezzo di una campagna piatta e tutta agricoltura come Noventa.
Una terra ricca di memorie e che amo.
A Noventa abita uno dei più noti botanici del mondo, il professor Cocker, con cui ho avuto il piacere indimenticabile di un viaggio fino a Milano. Circa tre ore passarono come tre minuti. Argomento della conversazione, come ci fossimo accordati prima, immenso e misterioso: la sessualità, nelle piante, negli animali, nell’uomo. Non si cavò naturalmente un ragno dal buco, e questo si sapeva, ma le reciproche impressioni parvero arricchire il nostro piccolo sapere e ciò bastò ad entrambi.
Ahimè! di Noventa come di tutto il Basso Piave, come di tutto il Veneto devo a questo punto lamentare una cosa, quella che io chiamo la «cultura dell’ombra», cioè la cultura del bicchiere o dei vari, troppi bicchieri di vino prima di pranzo o comunque fuori dai pasti. Delle micidiali, «ombre» obbligatorie di solito che, appunto, sono il contrario di qualunque cultura, sono la negazione della lucidità mentale, dunque della ragione.
Non è spregio del vino, il mio, che amo, invece, ma spregio dell’obnubilamento della ragione, della curiosità vera, insomma ancora una volta della cultura che non ama l’obnubilamento: che deve essere secolare, ereditario, retorico, patologico; non sta a me, veneto, lavare i panni fuori casa, dunque, li laverò in casa in quest’occasione. Ma tant’è: non sarò certo io a raddrizzare le gambe ai cani, ne altra cultura ad avere la meglio su quest’abitudine, per errore chiamata tradizione. Non esiste tradizione dell’obnubilamento del cervello e se esiste, tanto peggio.
Di quest’arguto e antico paese tengo per ultimo il ponte di barche che personalmente preferisco a qualunque altro ponte in muratura o ferro. Là dove il Piave fa un’ansa, una larga ansa che Hemingway certamente vide prima di venir ferito sull’altra sponda, quella per così dire italiana, durante una delle offensive austriache di là del fiume. È un’ansa lenta e larga, profonda, qua è là maculata dalle bolle d’aria dei pesci, un’ansa si direbbe maupassantiana e comunque francese: da pescatori. Lì il cuore sembra calmarsi dei suoi spasmi, e, specie d’estate, quasi appisolarsi attaccato al pomo di una lenza. Quella degli eterni pescatori di tutta la letteratura e della pittura dell’ottocento.