Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

Gabriella Dorio, un oro da leggenda a Los Angeles ‘84

DORIO, IL SORRISO CHE ILLUMINÒ UN’OLIMPIADE

- Rea

Il miglio è l’università dell’atletica. Saranno ricchi di fascino i 100, non si discute, ma i 1.500 sono da cinture nere della pista. Quattro giri scarsi, a galleggiar­e tra il mezzofondo in senso stretto e l’ultima frontiera dove si deve esprimere anche velocità. Resistenza, forza e spunto rapido insieme; elasticità per non crollare sugli strappi di ritmo e «garra» sufficient­e per stare dentro al gruppo, resistere alle spallate, alle strette sul cordolo della pista, alle chiodate che ti possono arrivare nello stinco, fino a segnare di sangue l’osso.

Trentacinq­ue anni fa, a Los Angeles, è tempo di Olimpiadi. Olimpiadi dimezzate dai veti politici internazio­nali. A Mosca nel 1980 niente Usa e «blocco Nato» quasi al completo e a Los Angeles, quattro anni dopo, assente l’urss e gran parte dei paesi del patto di Varsavia, oltre a quelli gravitanti nell’area del gigante sovietico. In tutto questo si innesta la figura esile e fortissima di una ragazza veneta nata nel giugno 1957 che da sempre sogna una medaglia olimpica e che in California vincerà un oro leggendari­o sui 1.500. Corre perché le piace, perché così si sente viva, perché ha un talento naturale nel sciogliere sul tartan due gambe flessuose come il giunco. Gabriella Dorio corre perché sa correre, ha 27 anni e a Los Angeles si presenta con l’esperienza di due finali olimpiche, a Montreal 1976 e Mosca 1980, tanti campionati europei e il Mondiale del 1983 a Helsinki. Corre perché ha talento e perché, tanti anni prima, ha avuto un «via libera» dall’alto. Anzi, dall’altissimo. Quando è solo una ragazzina che già vince quello che c’è da vincere, in famiglia una figlia che corre in pantalonci­ni e canottiera non viene vista con favore. Non sta bene. Nel Veneto ancora profondame­nte rurale dei primissimi anni ‘70 succede ancora questo. E allora deve intervenir­e l’arciprete di Veggiano, il paese dove abitano i Dorio: e la parola del prelato, che vede nella forza e nella grazia di quella ragazzina bionda un «dono di Dio», fa crollare anche le ultime barricate erette da mamma e papà.

Gabriella continuerà a correre e a distanza di 35 anni da quel trionfo olimpico continua a stare nell’atletica, nelle scuole, a fare la dirigente con le Nazionali giovanili, a predicare il bene, fisico e psicologic­o, che può fare lo sport in un bambino. Una missione portata avanti con determinaz­ione ma sempre con quel larghissim­o sorriso che illuminò, nel 1984, lo stadio dell’atletica di Los Angeles. Gabriella, togliamo subito un dubbio: padovana o vicentina?

«Sono nata e cresciuta a Veggiano, provincia di Padova: quando facevo la prima media ci siamo trasferiti a Cavazzale, nel vicentino. Io dico veneta, così non sbaglio...». Come si è avvicinata all’atletica leggera?

«A scuola, con le campestri, andavo già forte. Poi succede che il presidente della Fiamma Zermeghedo aveva una ragazzina ammalata per i campionati italiani e hanno chiamato me a sostituirl­a. Ho vinto, poi ho partecipat­o ai Giochi della Gioventù nel 1971 e si può dire che

da lì non ho più smesso». Atletica primo amore? «Primissimo e unico amore... E dire che da ragazzina ho anche rischiato di smettere subito di correre».

Perché?

«In casa non erano d’accordo, dicevano “che non stava bene”... Era così, parliamo di un Veneto di campagna di quasi mezzo secolo fa».

Però ha continuato, qualcosa deve essere successo, no? «Si è mosso il mio insegnante di educazione fisica, è arrivato a casa con l’arciprete del paese, che disse “se è un dono di Dio, non possiamo fermarla”. E di fronte a questo, anche i miei genitori hanno dovuto arrendersi...».

Anni non facili i ‘70, anche da un punto di vista politico...

«Per niente. Ma è un periodo che si studia poco a scuola e che invece bisognereb­be conoscere molto meglio».

A scuola si fa anche poco sport? «Pochissimo. Ed è grave perché lo sport ti aiuta a stare meglio, ti fa crescere, ti aiuta ad attraversa­re i tuoi limiti. Ti fa diventare adulto e ti insegna a vivere».

Ma è vero che l’agonismo è controprod­ucente nella crescita di un bambino?

«Anzi, tutto il contrario. Basta che sia fatto bene e in maniera intelligen­te. Vittoria e sconfitta fanno parte della vita e saperle gestire è importante».

Torniamo indietro: Montreal 1976, prima Olimpiade a 19 anni: ricordi? «Emozione pazzesca. Il Coni decise di farmi fare esperienza e hanno avuto ragione. Sui 1.500 ho chiuso bene facendomi anche un giro in testa, nessun timore reverenzia­le. Mi sono detta: due gambe io, due gambe le altre, perché non provarci?». Quattro anni dopo a Mosca, primo boicottagg­io olimpico «pesante»... Clima?

«Strano. Si percepiva un’atmosfera diversa, più tesa. Io faccio quarta sui 1.500 e vado in finale sugli 800. Certo che vedere Mennea, la Simeoni o Damilano sul podio con l’oro ma senza bandiera e inno è una sensazione che non potrò dimenticar­e. Dicono che lo sport dovrebbe unire i popoli e invece...».

A lei quattro anni dopo, a Los Angeles, è andata meglio in tutto...

«Direi di sì. Chiudo quarta sugli 800, poi sui 1.500 avevo studiato nei dettagli la tattica di gara. Poi in corsa è andato tutto in maniera diversa da come l’avevo pensata».

Cosa ricorda dell’ultimo giro?

«I primi 800 metri erano stati lentissimi, io spunto veloce non ne avevo tanto. Mi son detta: vuoi vedere che quindici anni di lavoro saltano solo per il ritmo basso?».

E quindi?

«E quindi sono andata in testa e ho “tirato il collo” a un bel po’ di avversarie. La Melinte non ha retto il cambio, ha tentato di prendere la testa ma all’ultima curva l’ho passata io e ho preso quei cinque metri sufficient­i a vincere. Da dietro rimontava l’altra romena, la Puica, ma era tardi e ha chiuso terza».

L’immagine che tutti ricordano è quel sorriso spaziale e le braccia larghe, a voler abbracciar­e il mondo...

«Avrei voluto avere tutti i miei cari con me per dividere una gioia talmente grande da aver paura che mi soffocasse sulla pista».

Dopo l’oro olimpico una scelta che, forse, pochi ancora sono in grado di comprender­e fino in fondo: lo stacco dallo sport e la decisione di diventare mamma. Difficile?

«No, avevo raggiunto il top e, fatto questo, desideravo dei figli. Ho seguito la mia strada, ero convinta che fosse la cosa giusta da fare in quel momento».

Poi il rientro non è stato generoso di risultati, complici anche parecchi infortuni...

«No, ma non ho alcun rimpianto. Mi sono ritirata nel 1991, è andata bene così».

Premendo sul pulsante della macchina del tempo cambierebb­e qualcosa?

«Direi di no, forse accetterei la borsa di studio che mi offrirono per andare a San Francisco. Ma non è un vero rimpianto, solo curiosità di capire come sarebbe andata».

Gabriella, e adesso?

«Organizzo da 22 anni “Giocoatlet­ica” con migliaia di bambini della scuola primaria e faccio l’accompagna­trice delle selezioni Under di atletica. È una passione che non muore mai, passano gli anni ma resta una cosa meraviglio­sa stare con i più giovani».

Il «dono di Dio»

Quando ero ragazzina i miei genitori non erano d’accordo sul fatto che corressi. Dovette intervenir­e il prete del paese: «Se è un dono di Dio non si può fermare». E allora si arresero...

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Los Angeles 1984 Gabriella Dorio sul traguardo della gara olimpica sui 1.500 e poi sul podio con l’oro

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