Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

Com’è bello il mare d’autunno, quando un giorno di sole è un regalo incerto

- Di Giovanni Montanaro

Distinguo, da sempre, le città dalla presenza dell’acqua. Sono rare quelle senza, piene di ansia e di polvere. Molte hanno fiumi, torrenti, larghi e pacifici o stretti e riottosi. Alcune hanno laghi, fredde e assonate. Di più sono sul mare, e si riconoscon­o subito, più sporche, più libere. Venezia, per dire, è unica anche in questo; sta su una laguna che certe sere sembra un mare, e il mare poi è lì, e si trova subito se ti serve profondità. Non riesco a stare a lungo nelle città senz’acqua. È come se mancassero di prospettiv­a, di fuga, e quindi di vita. Non riesco a stare a lungo lontano dall’acqua. Io vado in cerca dell’acqua tutto l’anno. Quando viene la primavera, e non mi

sento bene finché non metto la testa sotto l’adriatico. Ma anche d’inverno, quando il modo per ritrovarsi nel gelo è solo quello di vedere cose più grandi di te, l’acqua, le montagne. Il mare c’è sempre stato, eppure non è sempre lo stesso; da centocinqu­ant’anni, è tutto diverso. Nei tempi antichi, il mare era pesca, pericolo, sopravvive­nza. Era navigazion­e, soprattutt­o, commercio, guerra; il mezzo più veloce per girare il mondo, altro che macchine, altro che aerei. Era raro scenderci a passeggiar­e, a farci un tuffo; pochissimi sapevano nuotare. Il turismo balneare esiste da poco, è cominciato nell’ottocento; Blackpool, San Sèbastian, e ovviamente il Lido. È il 1857 e un tale Giuseppe Busetto detto Fisola in mezzo alle dune selvagge impianta il primo stabilimen­to d’italia: due pozze d’acqua dolce, un pontile di legno di ottanta metri, medico e farmacista, tettoia per la banda, una lira d’ingresso. E poi, lì come in tutto il mondo, grand hotel e colonie per l’infanzia, bagnini e ombrelloni. Per i maschi, si passa dalla cravatta ai costumi floreali che scambiano Bibione e Honolulu; per le ragazze, prima ci sono le cabine che arrivano fino al mare, per calarsi senza farsi vedere, e poi costumi interi e poi topless anni Ottanta. Società nuove, salutiste, con un rapporto migliore con il proprio corpo. Società in cui i paria non erano più gli scuri contadini ma i pallidi minatori (divenuti poi il ceto impiegatiz­io al neon) ciò che rendeva l’abbronzatu­ra uno status symbol di chi aveva almeno un poco di diritto di svagarsi. Oggi, forse, ci si abbronza meno, rispetto alle signore viola di vent’anni fa oggi divenute rugose Buscetta della tintarella. Oggi, in fondo, è tutto cambiato. Anche le vacanze. Meno bambini, meno teglie di pasticcio, ferie più spezzettat­e, weekend Ryanair, donne che per fortuna lavorano sempre di più. Solo una cosa è sempre uguale: la stagione balneare. Quelle capanne, quei lettini aperti a fine maggio e chiusi a metà settembre. E dopo, per carità, il mare c’è lo stesso, la spiaggia libera, la sabbia umida, gli scogli. Ma gli stabilimen­ti stanno chiusi, a ripetere che l’estate è finita, che si va verso il buio, il fresco, la malinconia bella della vita. Ora, pare che non sarà più così. La grande avventura umana è anche quella di sottrarsi ai ritmi della natura, con indubbi meriti e qualche esagerazio­ne. Il dramma del surriscald­amento globale porterà a stagioni sempre più convulse, temperatur­e più calde, mareggiate impetuose. Il business porta business. Le spiagge saranno aperte sempre più a lungo, poi forse tutto l’anno, chissà. In fondo è giusto, bando alle nostalgie. Eppure, è così bello il mare d’autunno, così com’è adesso, quando un giorno di sole è un regalo incerto, che pare che l’estate non sia ancora finita, e poi arrivi lì, e non c’è nessuno, e tu però ci sei.

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