Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
«Anch’io per due volte ho rischiato la vita. Fabio? Non si fermava mai»
L’ex campione e l’amico morto: «Buzzi non conosceva la paura»
«Buzzi conosceva bene Venezia, ma lui era uno che non si fermava mai davanti a niente». Adriano Panatta oltre al tennis aveva la passione dell’offshore: «Ho rischiato due volte di morire».
” Fabio era un mostro sacro di questo sport, uno che non si sarebbe fermato davanti a nulla
” Mi sono ritirato quando ho capito che ero troppo vecchio: non è come perdere una partita a tennis
Su imbarcazioni come quella ha corso per 25 anni. Ha vinto, ha rischiato. Adriano Panatta non è stato solo un campione del tennis italiano, uno dei più grandi di sempre: è stato anche pilota di offshore, campione del mondo nella classe Evolution nel 1991 e primatista mondiale di velocità sull’acqua. Oggi vive a Treviso e dieci anni fa ha deciso di chiudere con quel mondo, che amava: «Quando mi sono reso conto che i miei riflessi non erano più gli stessi di quando avevo quarant’anni, ho capito che era il momento di darmi una regolata». Il terribile incidente di Venezia, martedì sera, ha coinvolto tre amici con cui aveva condiviso la passione e le gare, lasciando in lui un segno profondo.
Panatta, conosceva bene Fabio Buzzi?
«Benissimo, sono dispiaciuto e affranto. Ho corso con lui all’inizio della mia carriera, 35 anni fa. Ma conoscevo bene anche Luca Nicolini, che era stato il mio meccanico per qualche anno. Due persone di grande valore. Sono felice che Mario Invernizzi si sia salvato, ma questa tragedia è davvero sconvolgente».
Che ricordo ha di Buzzi? «È stato un mostro sacro della motonautica, un genio della progettazione, sicuramente una delle persone più importanti nel settore nautico italiano, nella sperimentazione di scafi e motori. Si spingeva sempre oltre, voleva riprendersi il suo record. Per affrontare queste sfide ci vuole un grande coraggio ma lui era esattamente così: non si accontentava mai, non si sarebbe fermato davanti a niente. Non conosceva la paura, ha sempre corso alla sua maniera, all’estremo».
Si è chiesto, da esperto, cosa possa essere successo?
«È difficile dirlo. Quando si arriva dopo 24 ore di pilotaggio, anche se ci si alterna alla conduzione, la stanchezza è molta. Di notte è difficile, è buio, le cose grandi sembrano piccole, o al contrario cose minute sembrano enormi. Potrebbero aver confuso le luci dell’imboccatura del porto, o aver perso per qualche momento l’attenzione. Ormai erano praticamente arrivati, la giuria sentiva già il loro rumore».
Ha percorso molte volte quel tratto di mare?
«Ho tentato due volte quel record, l’ultima una decina di anni fa, ma partivo da Venezia e arrivavo a Montecarlo, era quello il percorso originario. L’arrivo a Venezia è più complicato, ci sono le dighe, mentre a Montecarlo è tutto libero, è difficile sbagliare con un gps».
Lei perché ha smesso? «Correvo soprattutto in velocità, è una sfida contro se stessi, ma ero diventato troppo vecchio. La motonautica è lo sport più pericoloso del mondo».
Il rischio fa parte del fascino della velocità?
«Tutti i piloti ne sono consapevoli, ma ci sono sempre una grande preparazione e una rigorosa attenzione. Sbagliare una manovra non è come perdere una partita a tennis, che stringi la mano all’avversario e vai a fare la doccia. A sbagliare ci si può lasciare la pelle. Anch’io ho rischiato la vita, due o tre volte, e mi è andata bene. A volte il destino ti grazia, a volte, no».
Venticinque anni non sono pochi, le manca l’offshore?
«No, non ne sento la mancanza. Mi sono divertito molto, mi sono preso le mie soddisfazioni, ho conosciuto molte persone in gamba e per bene. Ma era il momento di smettere. Quando diventi più maturo, capisci che con il destino non bisogna tirare la corda».