Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Dall’africa al Veneto, il successo dei migranti fra moda e integrazione
Stoffe e integrazione: i migranti che conquistano la Fashion Week
Se un abito non è perfetto da lì non esce. A quel capospalla double face di stoffe wax dentro e lana delle prealpi bellunesi fuori ci ha lavorato Ansumana Kinteh.
Ha bussato alla porta dell’atelier un anno e una manciata di mesi fa, appena maggiorenne. Ma in Gambia sarto lo era già. «Certo le tecniche sono diverse - dice -. Ho impiegato mesi per imparare quelle europee. E ci sono voluti altri mesi per imparare a cucire un cappotto. Ma anche kimoni, giacche, coperte». Per quelli è sceso in campo Lamin Seidy, il coetaneo che dell’atelier trevigiano è diventato referente. Lì in Gambia, oltre ad ago e filo, si è dato da fare guidando taxi e vendendo stoffe da quando di anni ne aveva 15. Qui lui taglia e confeziona. E appena ha un minuto libero rammenda e riadatta i vestiti degli amici, perché «immigrati sì, ma con stile».
E poi ci sono i capi di Sanryo Cissey, papà di cinque figli. Che per mantenerli, oltre al sarto, ha fatto anche il camionista e il contadino. Lui si occupa di concezione, taglio e confezione dei prodotti tessili. E ancora cuscini, giacche, corredi, arazzi, tappeti: Alagie Dampha è così bravo e veloce a ricamarci su che di questa tecnica in laboratorio è diventato maestro. Lo chiamano così. Tutto merito degli insegnamenti della nonna gandiese.
Ma se si parla di tecniche d’intreccio Kebba Sillah è imbattibile. Corda e uncinetto per cinture, orlature, bordi: è interprete di un lungo elenco di accessori. Si occupa anche dell’inventario dei materiali e dei bilanci partecipativi dell’atelier. Una vera filiera di prodotto, dal modellista su carta al confezionatore.
Un made in Veneto dal piglio africano, quello dell’atelier trevigiano di Talking Hands: 120 metri quadri di eccellenza, colore e integrazione. Con docenti d’eccezione che supervisionano tutto (e un po’ anche imparano). E i vestiti in giro per l’italia vanno a ruba. Hanno pure risposto all’appello dell’haute couture romana nei suoi appuntamenti più mondani.
Eppure Ansumana per campare lavora ancora al Burger King; Lamin ha ricevuto il secondo diniego del permesso umanitario in appello, e ora dovrà tentare il ricorso in Cassazione; Sanryo per il quinto anno è costretto a vivere in un grande centro di accoglienza trevigiano; Kebba cerca di non mancare una volta l’invio di soldi in Africa alla sua famiglia e Alagie, a permesso di soggiorno in scadenza, se n’è dovuto andare nel foggiano a raccogliere pomodori. Almeno per lui di assistere alla Venezia Fashion
Week, sfilata veneziana della loro prima vera collezione, lunedì, non c’è stato verso. Al trionfo della capsule collection Mixité ha tifato dalla Puglia. Si è immaginato da lì i pezzi unici sfilare in passerella. Come quelli commissionati da Gioele Romanelli, proprio all’interno del suo hotel «Novecento». Un giorno Romanelli ha incontrato l’art director trevigiano Fabrizio Urettini, che segue i ragazzi con il suo progetto sociale di Talking Hands, e ne è nata l’idea di vendere capi solidali di alta sartoria in albergo. Oggi i venti modelli non sono solo esposti nell’angolo acquisti dei tre hotel di Romanelli, ma i turisti li scoprono appesi in armadio e piegati sopra ai loro letti: prova gratuita per tutto il soggiorno. Alla fine potranno decidere se acquistarli o meno. Di più. I giovani stilisti migranti hanno disegnato anche le nuove divise dello staff. Kimono per tutti. E all’orizzonte c’è l’idea di un sito e-commerce tutto dedicato. Borse, capispalla, anche un plaid da utilizzare negli spazi comuni degli alberghi. Più cuscini e arazzi per allestire la sala eventi.
«Non è il classico prodotto di abbigliamento da grande distribuzione, ma di alta gamma - dice Urettini -. Se il pezzo non è perfetto non esce dal nostro atelier. Perché vogliamo far innamorare prima dei nostri prodotti e solo dopo della nostra storia».
«Vorrei coniugare turismo e riscatto dei migranti - spiega Romanelli -. Perché una delle funzioni contemporanee dell’ospitalità, per me, è creare interazione tra gli ospiti, il territorio e le sue attività». E quella dell’atelier moda trevigiano è un’attività di riscatto sociale che dal 2016 coinvolge i migranti ospiti dei centri di accoglienza. Ne scopre i talenti. Se n’è accorto anche il lanificio Paoletti di Follina (da due secoli produttore di tessuti pregiati d’alta moda) che da tempo regala scampoli e sottomisure al laboratorio per vederli trasformare in capolavori.
” Prima innamoratevi delle nostre creazioni. Solo dopo della nostra storia di vita