Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
ISTRUZIONE UN PAESE IN RITARDO
Sono due, oggigiorno, i grandi dossier sul tavolo del governo nazionale: l’autonomia regionale e la legge di bilancio. Ebbene, tutt’e due hanno la fondamentale caratteristica di non esaurirsi a Roma, la capitale, bensì di manifestare i loro effetti su tutte le regioni italiane, a cominciare da quelle – come il Veneto – che una loro proposta l’hanno già presentata.
Molte, si sa, sono le urgenze da soddisfare, le riforme da attuare, le cose da cambiare. Ma il Paese può continuare a girare intorno – senza iniziare a risolverla davvero – alla priorità delle priorità? Ossia, alla spesa per l’istruzione? Agli investimenti per la scuola e l’università? Scrive l’osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’università Cattolica di Milano: «La spesa pubblica italiana per istruzione in percentuale di Pil, pari al 3,8 per cento nel 2017, è ben al di sotto della media europea (4,6 per cento). L’italia si colloca nelle ultime posizioni in Europa, seguita solamente da Bulgaria, Irlanda e Romania. Se invece si considera la spesa pubblica per istruzione in percentuale di spesa pubblica totale, l’italia è all’ultimo posto in Europa con solo il 7,9% a fronte di una media europea del 10,2 per cento» (29 luglio 2019).
Quando i nostri imprenditori, così come altri settori della società civile, chiedono «più investimenti» si riferiscono, certo, agli investimenti materiali, o in reti fisiche che dir si voglia (strade, autostrade, aeroporti, ecc.)
Ma sempre più il pensiero di tutti corre agli investimenti immateriali: le tecnologie dell’informazione, la rete 5G e tutte le altre meraviglie del mondo di Internet. Guai però a dimenticare gli «investimenti in conoscenza», l’autentica base di tutta la nostra prosperità, presente e futura: ricerca e sviluppo (R&S); istruzione e capitale umano.
Torniamo così ai dati elaborati dall’osservatorio diretto da Carlo Cottarelli. La maggiore preoccupazione – scrive – riguarda l’istruzione universitaria: «mentre nel 2017 l’italia riportava cifre in linea con la media europea per l’istruzione primaria e secondaria, si apre un grosso divario quando si considera la spesa per istruzione terziaria. Lo Stato ha speso, infatti, solo lo 0,3 per cento del Pil per istruzione terziaria, nemmeno la metà della media europea dello 0,7 per cento».
Se a questi dati uniamo il divario che ci
separa dagli altri grandi Paesi dell’unione Europea in termini di rapporto tra spese in R&S e Pil, appare in tutta la sua forza e straordinarietà il piazzamento d’onore – dietro alla Germania e prima della Francia – della nostra manifattura su scala europea. Quanto potrà ancora durare? Esclusa l’opzione «per sempre», che vale solo per i famosi diamanti della pubblicità, restano le due opzioni proprie del mondo reale: poco o molto.
Per farci un’idea, proviamo a riscrivere la graduatoria dei principali paesi manifatturieri dell’unione Europea Germania, Italia, Francia, come s’è detto utilizzando non già il «valore aggiunto manifatturiero» (di fonte Unido), ma la «spesa annuale delle istituzioni che forniscono servizi di istruzione per studente dalla primaria alla terziaria» (di fonte Ocse). La Germania resta prima con 12.139 dollari, la Francia diviene seconda con 11.106 dollari, l’italia scivola in terza posizione con 9.308 dollari (2.831 dollari all’anno in meno per ogni studente rispetto ai tedeschi).
La posta in gioco è alta, altissima. Forse in Veneto la qualità delle nostre Scuole e dei nostri Atenei, così come gli sforzi compiuti dalle imprese per far crescere i talenti, inducono a considerare con minore urgenza e gravità la questione-istruzione. D’altro canto, è proprio da un territorio come il nostro, abituato a confrontarsi su scala europea e internazionale, che può e deve arrivare un’idea di Paese maggiormente rivolta al futuro.
Beninteso, non è solo con questa legge di bilancio e solo con una legge quadro per l’autonomia regionale che potranno essere colmati i ritardi che ci separano dagli altri due grandi paesi fondatori dell’unione Europei. Ma un piano di tre o cinque anni, capace – a partire sin dal 2020 - di rimettere su un sentiero di crescita l’andamento della spesa pubblica in istruzione è ormai indispensabile.
O il Paese vuole continuare a spendere di più per gli interessi sul debito pubblico che per la scuola?