Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
CAPITALE UMANO IL NUOVO FRONTE
Idue milioni di mascherine prodotte a Trebaseleghe, nel Padovano, riconvertendo in parte l’attività, da Grafica Veneta; il potenziamento della produzione presso la Siare Engineering di Crespellano, nel Bolognese, anche grazie all’arrivo di personale dall’esercito, di respiratori; la produzione di «caschi» per la ventilazione da parte della Dimar, azienda del distretto biomedicale di Mirandola, nel Modenese.
Sono soltanto tre degli esempi di ciò che sta accadendo nei poli produttivi di Veneto ed Emilia-romagna, due regioni che - al tempo stesso - conservano una robusta base manifatturiera, vantano un alto grado di apertura al commercio internazionale, sono state colpite duramente dalla diffusione del Coronavirus.
El’elenco dei gesti di straordinaria capacità e generosità imprenditoriale si sta allungando ogni giorno di più. Nella produzione delle fondamentali mascherine, per esempio, si sta impegnando il distretto del tessile-abbigliamento di Carpi. Tuttavia come scriveva qualche giorno fa Sandro Mangiaterra riferendosi alle aziende venete (ma la sua riflessione è facilmente applicabile anche all’emilia-romagna) «tutte le aziende non vedono l’ora di tornare a far girare le macchine a pieno vapore. Adesso bisogna giocare la partita a Bruxelles. Si vince o si perde tutti insieme» (Corriere del Veneto, 18 marzo). Le novità di questi giorni e di queste ore vanno certamente nella giusta direzione. Pensiamo, guardando a Francoforte, al piano da 750 miliardi varato dalla Banca centrale europea, dopo l’ormai famosa (e improvvida) conferenza stampa dalla presidente Lagarde della scorsa settimana (quella dei 120 miliardi, per intenderci). Pensiamo, ancora, alle primissime decisioni prese a Bruxelles dalla Commissione europea presieduta da Ursula von der Leyen. Dapprima, l’istituzione di un’iniziativa denominata «Corona Response Investment» al fine di offrire supporto al settore della sanità, al mercato del lavoro e a tutte le PMI toccate dalla crisi (si era parlato inizialmente di 25 miliardi di euro poi saliti a più di 30). Dopodiché, l’adozione temporanea di un nuovo quadro di regole sugli «aiuti di Stato» al fine di consentire agli Stati membri di concedere un supporto ulteriore all’economia; fra i cinque tipi di aiuto ora consentiti, si segnalano la possibilità di prestiti diretti a un’impresa in crisi di liquidità (e fino a un importo di 800.000 euro), così come la possibilità di applicare varie forme di garanzia statale sui prestiti concessi alle imprese dalle banche. Rispetto alla crisi più recente con la quale possiamo operare un confronto (tenendo nel debito conto che questa dovuta al Covid-19 è molto più grave perché assolutamente pervasiva ed estesa a tutto il sistema sanitario, economico e sociale), ebbene, rispetto al grande crac del 2008 questa volta l’attenzione all’economia «reale» è in cima alle preoccupazioni di tutti. La spina dorsale dell’economia reale, dappertutto nell’unione europea e nel nostro Paese (e qui da noi più che altrove), è rappresentata dalle imprese: micro, piccole, medie, grandi, multinazionali; familiari, private, pubbliche, cooperative. E le imprese, di tutte le dimensioni e di tutte le tipologie proprietarie, sono fatte di persone: sono comunità di persone. Ecco perché accanto alla drammatica battaglia che medici e infermieri combattono senza sosta nei nostri Ospedali, c’è un’altra battaglia che si svolge nel campo dell’economia: è il capitale umano che va salvato.come vincerla? Grazie al contributo di tanti, una ricetta possibile è in continuo divenire (si pensi, per ora, al decreto «Cura Italia» del Governo oltre alle iniziative europee più sopra ricordate), ma intanto sappiamo quale deve essere la dimensione del campo da gioco: quella europea. L’ha ben spiegato il ministro dell’economia, Roberto Gualtieri, nella sua intervista di ieri al Corriere della Sera dal titolo: «Bce, intervento poderoso. Nuove misure per le imprese. E proteggeremo i nostri asset»(20 marzo). Il tema-chiave sottolineato dal ministro Gualtieri è l’emissione - citiamo – «di titoli europei utilizzabili da ciascun paese alle medesime condizioni, che devono riguardare il contrasto al coronavirus e alle sue conseguenze economiche». Se proprio dobbiamo, lasciamo pur scegliere alle Cancellerie dei paesi nordici dell’ue se chiamarli «Eurobond» o «Coronabond»: quello che, coi tempi che corrono, non può essere in discussione è la loro necessità. Ne va della vita delle persone e delle imprese, due buone e sacrosante battaglie.