Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
PAPÀ MASSIMO LA FAMIGLIA E I SUOI MOTORI
Io e Massimo ci siamo innamorati subito e quell’amore ce lo siamo portati addosso per sempre. Mi ha sempre accettato così come sono, senza mai provare a cambiarmi
«In quei OPPEANO (VERONA) giorni, papà non ci ha mai trasmesso paura. Al telefono, dall’ospedale, la buttava sul ridere e diceva che era davvero stanco di stare lì». Poi, mercoledì 11 febbraio, quell’ultima chiamata. «Ha spiegato che l’avrebbero trasferito in terapia intensiva, perché faticava a respirare. Mamma si è raccomandata: “Devi essere forte, tieni duro e vedrai che presto ci ritroveremo”. Io gli ho detto: ”Ciao papi” e lui mi ha risposto “Ciao, ci vediamo”». Tre giorni dopo Massimo Marchi è morto, all’ospedale «Borgo Roma» di Verona.
Aveva 55 anni, una moglie, due figli. Faceva il carrozziere, non aveva patologie pregresse ed è una delle vittime più giovani del coronavirus.
I primi sintomi li aveva avvertiti venerdì 28 febbraio: febbre, un malessere generale. Il medico di base l’aveva visitato e rispedito a casa: «Hai l’influenza, riposati». La febbre era salita a 38 e lui si era chiuso in camera per non contagiare la famiglia. Il giovedì successivo la situazione sembrava in miglioramento: febbre sparita, solo un forte senso di spossatezza. «Speravamo fosse finita. Invece domenica la temperatura è risalita» continua a raccontare il primogenito Nicola, che ha 24 anni. «Lunedì 9 marzo abbiamo chiamato il 118. È arrivata un’ambulanza e lui ci è salito. Era solo, lì sopra. Ed è quella l’ultima volta che l’abbiamo potuto vedere». Il resto, è la cronaca di un ricovero finito nel modo peggiore: il tampone positivo, la degenza nel reparto di malattie infettive, il trasferimento in Rianimazione e il coma indotto. «Una dottoressa, si chiama Katia Donadello, ci è sempre rimasta vicino, come un angelo», ricorda Antonella Petronilli, la moglie di Massimo Marchi. «Quel sabato sera mi ha telefonato a un orario insolito e ho subito capito che qualcosa non andava...».
Nella drammatica conta delle vittime che è diventata la guerra al coronavirus, si rischia di dimenticare che dietro a quei freddi numeri c’è la vita delle persone.
Massimo Marchi era nato a Vallese, frazione di Oppeano, paesino della Bassa Veronese. Faceva il carrozziere da quando aveva 15 anni. Lo faceva per guadagnarsi da vivere e perché quel lavoro gli era sempre piaciuto. «Amava i motori, da ragazzo correva con i gokart», racconta Antonella. «Quando ci siamo conosciuti eravamo entrambi molto giovani ma ci siamo innamorati subito e quell’amore ce lo siamo portati addosso per sempre. Perché lui, così pacato ed equilibrato, mi accettava per quella che sono, con tutta la mia irruenza e schiettezza. Non ha mai provato, neppure una volta, a cambiare il mio modo di essere».
Messi da parte i go-kart, da molti anni il tempo libero lo dedicava a Nicola e al secondogenito, Alessandro, che ha 18 anni. «Era un papà molto presente, che ci ha sempre spinti a seguire le nostre passioni. Io e mio fratello amiamo suonare e ricordo che, fin da ragazzini, era lui a portarci a lezione di musica o ad accompagnarci ai primi concerti. Ci supportava: ha sempre fatto tutto ciò che poteva per dimostrarci che credeva in noi».
Mentre Nicola racconta del papà scomparso, in casa si sta organizzando la cerimonia d’addio, con la cremazione che avverrà tra qualche giorno. I due fratelli e la madre sono in isolamento ma nessuno di loro mostra sintomi. «Papà è morto solo - riflette il ragazzo - come muoiono tutti i contagiati di questo brutto periodo. Nessuno ha potuto dirgli addio: è l’unico rimpianto».