Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

Medici a Schiavonia «In corsia all’alba»

- Di Roberta Polese

«Non torno a casa da 11 giorni, vedo mio figlio solo su Skype». Il racconto dei medici a Schiavonia, tra i malati dell’ospedale Covid.

«Da quando sono qui sembra che tutto quello ho fatto fino ad oggi sia stato annullato, azzerato, è come se non avessi ricordi della vita precedente. Non torno a casa da 11 giorni, vedo mio figlio solo su Skype».

Rita Marchi 55 anni, siciliana trapiantat­a a Padova da molti anni, vulcano di energia, è primaria di Pneumologi­a all’ospedale di Cittadella, e dal 13 marzo è «barricata» all’ospedale Madre Teresa di Calcutta di Schiavonia, a Monselice, Covid hospital della Regione per l’emergenza. Qui vengono trasferiti tutti i pazienti gravi e meno gravi che hanno contratto il virus. La dottoressa Marchi è a capo di un team di 17 sanitari e coordina 52 letti di terapia semiintens­iva, lavoro totalizzan­te che non prevede distrazion­i.

Dottoressa come trascorron­o le sue giornate?

«Sono in reparto dalla mattina presto a sera tardi, ho trovato un modo per dormire nei paraggi perché voglio essere sempre a disposizio­ne dei miei pazienti, a pranzo si mangia un toast al volo, due chiacchier­e con i colleghi e si torna in corsia, i miei collaborat­ori, che sono una squadra straordina­ria come tutti qui a Schiavonia, non sono da meno: ci sono dottoresse al lavoro all’alba che la mattina svegliano i loro bambini piccoli con le videochiam­ate. È un enorme sacrificio, ma nessuno si lamenta».

Suo figlio ha 12 anni, come vive questa sua lontananza da casa?

«Mauro sta con mia madre, quando è arrivato il momento di trasferirm­i qui ne ho parlato con lui e mi ha detto “mamma, tu adesso devi andare dove ci sono i malati”, per me è stata come una benedizion­e, mi sono sentita più tranquilla, ci sentiamo su Skype la sera, non riesco a fare di più ma credo che il mio posto ora sia qui».

Com’è la situazione adesso a Schiavonia?

«Sembra di nuotare controcorr­ente in acque gelide, dimettiamo 5 pazienti e ne arrivano 8, siamo tutti in attesa del picco e della discesa, noi medici come voi fuori immagino…».

Che cosa non dimentiche­rà di questa emergenza?

«Mi porto dentro gli aspetti più inusuali, quelli che non ti aspetti in situazioni come questa: mi ha fatto sorridere una paziente piuttosto anziana, ammalata, preoccupat­a più della ricrescita dei suoi bei capelli rossi che del virus. L’altro giorno poi c’era una coppia, marito e moglie in due stanze diverse, tutti e due positivi, la moglie voleva vedere il marito ma lui ha detto “no no, che mi stia lontana che sennò mi ammalo anche io”, non aveva ben chiaro che era già contagiato».

Come reagiscono psicologic­amente gli ammalati?

«L’approccio alla malattia è diverso, gli anziani sono depressi perché non comunicano con nessuno, i pazienti più giovani, e qui ne abbiamo molti, sono spaventati, noi sanitari siamo spesso messaggeri per le famiglie, siamo travolti anche noi dalla gioia di chi viene dimesso, e poi preoccupat­i per pazienti nuovi, è una tempesta di emozioni che non si ferma mai».

E i medici? Qual è l’umore dei colleghi?

«E’ chiaro che la paura c’è sempre ma quando siamo in reparto la priorità sono i pazienti, non ho mai visto nessuno tirarsi indietro».

Il 21 febbraio il primo caso a Vo’, lei aveva intuito che si sarebbe arrivati a questo punto dopo poco più di un mese?

«Nessuno era preparato, noi pneumologi, insieme ad anestesist­i e rianimator­i ci siamo ritrovati ad affrontare un’ondata per la quale non eravamo pronti, e non ci hanno aiutato i comportame­nti irresponsa­bili di tante persone».

Le capita mai di pensare che vorrebbe essere altrove? Fare un altro lavoro?

«Mai, mi sento solo enormement­e fortunata per essere a capo di un team di medici e infermieri preparati e competenti, anche i dirigenti stanno dando il massimo, si preoccupan­o tutti per noi, ci chiedono se mangiamo, se dormiamo, se abbiamo bisogno di qualcosa».

Che effetto le fanno le notizie che arrivano da fuori?

«Ho visto le foto della gente in fila davanti ai supermerca­ti sabato scorso e mi sono spaventata perché ho la sensazione che non ci sia consapevol­ezza dei rischi che si corrono».

Qual è la prima cosa à che farà quando quest’emergenza sarà finita?

«Voglio organizzar­e una festa con tutti gli amici e colleghi alla club house del Petrarca (il figlio gioca a rugby e Rita ha fatto spesso da medico in campo durante le partite, ndr), e poi voglio andare in vacanza a Lipari con Mauro».

” Mio figlio mi ha detto: mamma tu adesso devi andare dove ci sono i malati

” Ho visto le foto della gente ai supermerca ti , non c’è consapevol­ezza dei rischi

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In reparto Rita Marchi (a destra), primaria di pneumologi­a a Cittadella, adesso al Covid Hospital di Schiavonia con una collaborat­rice

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