Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Gli psicologi, tra paure e bollette
Convivenza, mutui e tasse da pagare, timore per i propri cari (e anche di morire). Tra stress e paure i servizi di assistenza raccontano le difficoltà delle famiglie.
In tutte le famiglie, le persone adulte devono ripensare i ruoli domestici e gestire la prole 7 giorni su 7, 24 ore su 24. Per quelle monogenitoriali, l’impegno è doppio. Per quelle con persone anziane in casa l’attenzione per il rischio contagio è massima. E per quelle con teenager nel pieno dello sviluppo adolescenziale o sul «limitar di gioventù», ci sono le bizze dell’età della transizione. Fino ad ora, questi aspetti sono stati bellamente ignorati nel calcolo delle ricadute sociali del Coronavirus. Chi deve intervenire a sostegno di lavoro e imprese, però, li deve considerare, per non fare la figura di chi «non vede la foresta per colpa degli alberi». Prendiamo lo smartworking, che è la sola modalità di organizzazione del lavoro ammessa nelle settimane di blocco delle attività non essenziali. Per usarlo, non basta che le persone abbiano discrete competenze digitali, abitino in zone con connessione a Internet veloce e stabile, e siano state dotate degli strumenti per il lavoro da remoto. Giovanni Costa su queste colonne (Corriere del Veneto, 22 marzo) ha scritto che a chi fa smartworking è richiesto di trasformare comportamenti e sviluppare nuove capacità relazionali, mentre chi lo organizza deve ripensare i modi per coordinare il lavoro. Ma c’è dell’altro. La prestazione professionale di chi lavora da casa propria, e quindi l’efficacia dell’effetto sostitutivo dello smartworking in questo periodo, dipende pure da spazio e tempo. La trasformazione delle mura domestiche in luogo di lavoro non è né immediata, né alla portata di tutte le famiglie. Al di là di considerazioni sull’ergonomia della postazione, a casa le persone sono inserite in un ambiente progettato per altri scopi, in termini sia di dimensioni sia di funzionalità. Se in azienda l’open space è una soluzione che può migliorare le relazioni e la performance, quando si lavora da casa il salone ampio e gli spazi aperti (per chi se li può permettere) ad uso promiscuo, dai pasti alla conversazione e dal relax al gioco, deprimono la performance. C’è poi un aspetto ancora taciuto: quando si interagisce in videochiamata con colleghi, fornitori e clienti, stakeholder o studenti è come far entrare tutti a casa propria. Mi è già capitato di sentir commentare «il gran bel quadro nel salotto di Tizio», «le travi a vista del soppalco di Caio» e «gli scatoloni ammucchiati nello sgabuzzino di Sempronio». Come se ne esce? Le organizzazioni che ricorrono allo smartworking mettano subito a disposizione un supporto qualificato di interior design per adattare «quanto basta» gli ambienti di casa per lavorare in modo salubre, dignitoso e senza provare disagio. Se ciò non bastasse, c’è anche la questione del tempo. Tra chi fa smartworking non sono poche le persone che con una certa probabilità si troveranno nella situazione di non poter lavorare negli orari canonici, vuoi perché gli spazi domestici sono destinati ad altri usi, vuoi perché devono dedicare tempo ad attività di assistenza di grandi e piccini. È pertanto velleitario pensare che non ci sia una caduta della performance in queste situazioni. Come se ne esce? Con un colpo d’ala: riprogettare gli orari di lavoro in termini sia verticali (orario di inizio, pause, fine) sia orizzontali (giorni di lavoro e di riposo nel corso della settimana), avendo piena contezza delle esigenze specifiche del nucleo familiare di ogni smartworker; mettere subito a disposizione anche un supporto qualificato per aiutare le persone a gestire l’inevitabile commistione tra tempo per la famiglia e tempo per il lavoro. Sono queste le imprese resilienti a tutto tondo.