Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Il paese che per primo scoprì la Spagnola
Scambiata per tifo, provocò i primi morti segnalati Un medico militare lo comunicò l’1 settembre 1918 al sindaco. Che chiuse le scuole due settimane...
Sossano, nel Vicentino, è il paese che per primo scoprì la Spagnola. Scambiata per tifo, provocò i primi morti segnalati Un medico militare lo comunicò l’1 settembre 1918 al sindaco.
«Illustrissimo Signor Sindaco, ho l’onore di avvisare la Signoria Vostra che, essendosi verificati vari casi di tifo, specialmente tra i bambini che frequentano le scuole, credo sia opportuno far chiudere le scuole di tutto il Comune per un periodo di almeno 15 giorni». Parole scritte, con qualche formalismo d’epoca, 102 anni fa, l’1 settembre 1918, eppure attualissime per come si riferiscono a una malattia infettiva e alla necessità di chiudere per due settimane tutte le scuole del territorio. Sembrano tratte di peso dalle cronache del coronavirus 2020 e non dalle memorie d’archivio di una Grande Guerra che, nel settembre del ’18, doveva durare altri due mesi.
Ma le analogie non finiscono qui, appurando che autore della missiva è il dottor De Toni, capitano medico del II Gruppo reparti d’assalto, mentre il destinatario è Garibaldi Fracca, sindaco di Sossano, comune di nemmeno 5 mila abitanti in provincia di Vicenza. In linea d’aria ci troviamo perciò a una decina di chilometri da Vo’ Euganeo, il paese del Padovano isolato per due settimane come focolaio del virus che sta paralizzando il mondo. Con la rilevante differenza che questa comunicazione sanitaria è citata da varie fonti fra le prime testimonianze al mondo sulla diffusione dell’influenza «spagnola», scambiata per tifo da un medico che ancora ne ignorava l’esistenza.
Si tratta della più terribile pandemia di cui si conservi memoria: 500 milioni di contagiati sparsi in ogni angolo del pianeta, un terzo della popolazione mondiale dell’epoca, 21 milioni di morti, di cui circa 600 mila solo in Italia.
Sono quindi centodue anni che «si sentono» confrontando i numeri della spagnola con quelli del coronavirus comunicati dall’organizzazione Mondiale della Sanità. Perché se è vero che la percentuale di mortalità, attorno al 3%, è simile, più evolute sono le contromisure sanitarie e preventive che l’umanità dell’anno 2020 è stata finora in grado di mettere in campo. «Ma oggi come allora resta la paura che mi comunicano quanti entrano in farmacia con le loro domande su cosa succederà e su quanto durerà quest’emergenza» commenta Alberto Cogo, che degli abitanti della Sossano del XXI secolo controlla ogni giorno «il termometro» da un doppio punto di vista: quello del farmacista del paese, e quello dello storico della comunità locale, testimoniato da ammirevoli pubblicazioni come «Il Novecento a Sossano», stampato Giovani Editori. «Questione di poco tempo – racconta Cogo, che ci ha fornito copia delfronte la lettera del dottor De Toni – e l’allarme lanciato da quell’ufficiale medico si sarebbe trasformato in infinite tragedie, colpendo a morte anche gli alunni delle scuole a cui si fa riferimento. Come i due fratellini sepolti nella parte vecchia del cimitero, sotto la lapide dove si legge che furono uccisi dal crudel morbo».
La data dell’1 settembre coincide con l’inizio della seconda ondata della spagnola, quella ricordata come la più mortale e spaventosa, mentre la prima, che risale alla primavera del 1918, collega al territorio degli Stati Uniti l’iniziale diffusione del virus, poi portato in Europa dai soldati americani mandati a combattere nella Grande Guerra. «Bisogna mettere a fuoco che all’epoca Sossano era un’importante sede internazionale delle retrovie, distante un’ottantina di chilometri dal del Pasubio o dell’altopiano di Asiago» ricorda Antonio Boraso, novantaduenne dirigente scolastico in pensione, nonché sindaco di Sossano per ben cinque mandati fra il 1956 e il 1992. «Chi abitava qui durante la Prima guerra mondiale – continua Boraso – conservava ricordi molto vivi del reparto di soldati scozzesi accampati in paese, fonte di stupore per i gonnellini che indossavano in libera uscita. Credo che quella forte mescolanza di truppe provenienti da ogni dove abbia favorito il diffondersi del contagio».
La spagnola, che secondo Giovanni Fattori, fondatore del Museo della Memoria della vicina Colloredo, solo a Sossano avrebbe fatto trenta vittime, propagava terrore, e non solo febbre. «Come posso dimenticare i racconti della mia nonna materna, Amalia Zanella? - dice l’architetto Silvio
Caoduro, la cui famiglia abitava nella confinante Noventa Siccome aveva preso la spagnola da ragazzina, erano stati costretti a chiuderla per settimane in una stanza, e ogni sera picchiavano con un bastone alla finestra perché aprisse e ricevesse qualcosa da mangiare». Nonna Amelia ce la fece, per poi vivere fino a 97 anni, nonostante la famiglia del marito fosse contraria al matrimonio, ritenendo che la malattia l’avesse debilitata per sempre. Altri, invece, non la scamparono. «Ero bambino nei primi anni Trenta – spiega l’ex sindaco Boraso – e la sera, al posto della televisione, c’era la stalla dove si faceva filò. Lì sentivo raccontare le storie della spagnola, come quella della grande festa, preparata alla fine della guerra, per il ritorno dal fronte di un giovane soldato. Ma, al posto del ragazzo arrivò un telegramma: era morto a causa della spagnola».
Passato e presente sconfinano anche nel passo successivo della lettera, dove il capitano medico De Toni invita cortesemente il sindaco Fracca a prendere gli opportuni provvedimenti del caso. In realtà, nel 1918 le uniche risposte possibili a raccomandazioni del genere erano generate dalla disperata improvvisazione di comunità totalmente impreparate ad affrontare una simile catastrofe. «Si pensi solo che gli affreschi di villa Barbarigo, l’attuale municipio di Noventa – rivela l’architetto Caoduro – vennero picchiettati, allo scopo di far aderire meglio l’intonaco con cui disinfettare le pareti dal virus della malattia». A tanto si ricorreva in un mondo dominato non solo da una maggiore povertà, ma anche da livelli di disinformazione oggi inimmaginabili. Tanto che il nome «spagnola» non rimanda al Paese in cui quell’influenza ebbe origine, ma alla neutrale Spagna dove i giornali, liberi dalle censure delle nazioni in guerra, ne potevano liberamente dare notizia.
Questione di poco tempo e l’allarme lanciato da quell’ufficiale si sarebbe trasformato in infinite tragedie, colpendo a morte anche i bambini