Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

«Io suora di clausura e l’isolamento»

- Di Giulia Busetto

Suor Margherita, superiora delle Carmelitan­e scalze di Venezia: il virus visto dalla clausura.

Suor Margherita

Il silenzio è abitato. La solitudine è abitata. Non sono mai vuoti. Se lo fossero, chi ce lo farebbe fare, a noi, di scegliere questa vita ogni giorno?

«Coraggio, uniti ce la faremo» appeso al portone. A spingerlo solo silenzio, clausura, distanza, preghiera e Dio. Da ben prima della pandemia. Settecento anni, minimo. «Chi meglio di noi può dirvi di non aver paura della quarantena? Noi che l’isolamento lo viviamo sempre. E noi che lo abbiamo scelto, vi sveliamo un segreto: abbiamo scoperto che il silenzio è abitato, che la solitudine è abitata. Non sono mai vuoti. Se lo fossero, chi ce lo farebbe fare, a noi, di scegliere questa vita ogni giorno? Non ce l’avremmo mai fatta a vivere così per un’ intera esistenza. Saremmo delle donne vuote, disumanizz­ate. E invece no. In questo silenzio e in questa solitudine che state vivendo c’è un’opportunit­à, anche per voi, costretti a casa». A suor Margherita si spezza la voce. Rimbomba tra le mura trecentesc­he del convento veneziano di Sant’alvise, specchiato in laguna. Da un mese il telefono delle Carmelitan­e Scalze è un drin dietro l’altro. «Vi prego pregate per mio padre che è morto in solitudine», «Mio marito è agonizzant­e per colpa del virus, chiedete l’intercessi­one per lui», «Mi sento solo sorella, sono chiuso in casa da un mese, cosa devo fare? Preghi per me». La stampante del convento sforna mail con liste infinite di vinti dal virus, dalle porzioni dello stivale che sta bastonando peggio. Suor Margherita e le sue dieci carmelitan­e, che pregano da sempre per la salvezza del mondo, notte e giorno non ne saltano uno. Li affidano a Dio, uno alla volta. «Per me, quello che stiamo vivendo è uno dei momenti più difficili - confida la superiora -. Io sento forte la responsabi­lità delle mie sorelle, tre di loro sono molto anziane. Bisogna impegnarsi a mantenere un clima di comunità, aiutarci insieme a leggere nel migliore dei modi quello che ci sta capitando. Sa qual è il rischio?

Che il virus diventi il centro del nostro mondo, del mondo di tutti. Il virus è un problema, ne parliamo tutti i giorni, certo, ma non deve assorbire tutto. E bisogna viverlo con speranza, sempre». E chi la speranza l’ha già persa? «La speranza è una lotta, badate bene. Non arriva a caso, bisogna lottare». Anche da soli, fisicament­e inarrivabi­li, con le braccia oltre il balcone o le dita infilate nella grata del parlatoio. «Noi siamo lontani dai nostri cari sempre. E possiamo dirvi che la lontananza fisica può essere l’opportunit­à per scoprire una profondità diversa dei rapporti. Meno gesti e frequentaz­ione immediata, più essenza. Da quando sono in monastero ho scoperto che quando ci si sente dopo tempo con i propri cari diventa tutto più essenziale e vero. Un affetto meno epidermico e più reale». Quando riaprirete chiesa e parlatorio sarà così? «Sì. E sarà così anche per voi quando uscirete dalle vostre case. La privazione e la lontananza, se vissute bene, fanno crescere». Il telefono suona. Un gruppo di scout che «come state? Avete bisogno di qualcosa in convento?». Risquilla. Un avvocato veneziano che invece «vi va se passo a farvi la spesa e ve la porto lì?». E poi lettere di carta, mail, bigliettin­i, messaggi, Whatsapp. Anche le carmelitan­e di clausura sono connesse. «Ecco cosa succede - dice suor Margherita -: i rapporti sono veri anche quando sono invisibili, come in questo periodo storico. Non si vedono ma ci sono, eccome. Ne usciremo. E saremo più riconoscen­ti del sorriso del vicino di casa e della presenza di qualcuno che davamo per scontata». C’è chi la presenza la sta subendo notte e giorno in 80 metri quadri, condita di strilli e pianti dei più piccoli, come si fa? «Prendetevi un piccolo spazio di riflession­e, è un opportunit­à: è come se il mondo si fosse fermato. Torniamo all’essenza».

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Una suora di clausura prega per la salvezza del mondo. La crisi vocazional­e riduce drasticame­nte ogni anno la loro presenza nei monasteri italiani

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