Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Cronaca e follia di un’epoca secondo Rapino
Vita, morte, sogni e miracoli di quello che viene considerato il matto del villaggio
«Ogni storia di uomo, matto o normale, è una mescolatura delle stesse cose, na cascanna di lacrime, qualche sorrisetto, na cinquina di gioie di straforo e un dolore grosso come quando al cinema si spengono le luci. Che poi alla fine di tutto, noi cristiani, buoni e cattivi, poveri e ricchi, normali e matti, siamo tutti uguali...». Parla così Liborio Bonfiglio, protagonista del romanzo Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio, (minimum fax, 265 pagine, 17 euro) di Remo Rapino, uno dei cinque finalisti del Premio Campiello. La vita, la guerra, la fabbrica, il manicomio, la solitudine e tanti personaggi narrati da quello che viene considerato «il matto» del paese. Un flusso di pensieri scorre come un fiume in piena, con il linguaggio colloquiale e funambolico tipico di quando si parla tra sè. Ancora un romanzo di questo Campiello 2020, in cui la lingua è particolare, studiata, differente. Spiega Rapino: «È una lingua inventata, costruita sulla parlata gergale, su dialettismi. Un modo di porsi rispetto al mondo, ingenuo eppure ricco di intuizioni profonde. Liborio ragiona e scrive come parla». Rapino e gli altri autori saranno alla serata finale del Premio di Confindustria Veneto a Venezia in piazza San Marco il 5 settembre.
Come e quando è nata l’idea di questo libro?
«Liborio è nato come protagonista di un poemetto (Liborio muratore) oltre vent’anni fa. Poi è diventato un racconto, infine un romanzo. Siamo cresciuti insieme tra mille storie e tanti “folli”, tra immaginario e reale, lì dove la scrittura sa e deve stare».
Da tempo la giuria del Campiello ripeteva di averne abbastanza dei romanzi consolatori e di essere alla ricerca di una narrativa che spiazza. È il caso del suo libro?
«Ogni libro, scritto con la ragione e col cuore, assume la funzione di mettere al centro l’uomo, specie se vive all’interno di una periferia esistenziale. Se “spiazzare” significa dare voce a coloro che non hanno voce, allora sì. Ogni forma di follia, va vista anche come una imprevedibile emissione di energia, sovversiva dei codici sociali dominanti. Oggettivamente Liborio è un combattente contro l’emarginazione».
In questo momento di pandemia mondiale, quale dovrebbe essere la funzione dei libri?
«Letteratura e libri dovrebbero avere, in una società evoluta, sempre e in ogni caso, la funzione di educare e far crescere, eticamente e culturalmente – quindi politicamente in senso nobile e largo – la società civile, i giovani soprattutto».
Con il personaggio di Liborio ha voluto rappresentare chi vive ai margini e non riesce a riscattarsi?
«Liborio rappresenta una figura simbolica di chi vive l’emarginazione come forma estrema e disperata della solitudine. L’indifferenza comporta una mancanza di speranze e di utopie, le precondizioni di una società morta per l’umanità e per l’ambiente. Ecco perché ascoltare le “voci liboriane” in nome dell’accoglienza e dell’accettazione della diversità. Per questo i romanzi non si fanno con i documenti ma con le voci. A saperle ascoltare».
Come in Liborio, c’è un destino nella vita delle persone a cui non si può sottrarsi?
«Il destino può essere inteso come alibi contro ogni possibilità di cambiamento. Liborio è un combattente, che tende a sottrarsi al suo destino di Fuorimargine. Forse è infelice ma non vuole essere felice come tutti gli altri: se si combatte, pur da un’ ottica di cocciamatte, non si può essere mai sconfitti totalmente. Qualcosa sempre rimane a dare senso alla vita, ad ogni vita».