Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Le sei storie della Biennale
Fotografie, documenti, video, manifesti «Le muse inquiete»: dal cinema all’arte ottant’anni riletti dai direttori di settore
Di fronte alla storia le muse sono inquiete. Come hanno risposto in 125 anni di storia della Biennale di Venezia Arte, Architettura, Cinema, Teatro, Danza e Musica di fronte a cambiamenti, rivoluzioni, proteste, crisi, guerre che da sempre nutrono con i loro turbamenti gli animi degli artisti? L’interrogativo è ancora più stringente quest’anno che la Biennale si è vista costretta, in tempo di pace, a rimandare di un anno Architettura (la vedremo nel 2021) e Arte (2022) per la pandemia che ha colpito il mondo. Nell’anno del ripiegamento ma non della resa, la Biennale decide dunque di guardarsi alle spalle, di scrutare in quello specchio che è la sua storia. Nasce così, concepita a marzo, la mostra «Le muse inquiete», aperta da ieri all’8 dicembre nel Padiglione Centrale ai Giardini della Biennale, fortemente voluta dal presidente Roberto Cicutto e curata per la prima volta da tutti i direttori di settore insieme: Cecilia Alemani, Hashim Sarkis, Alberto Barbera, Antonio Latella, Ivan Fedele e Marie Chouinard. Una mostra di documenti, film, foto, quadri, manifesti, lettere, video. Una mostra che è soprattutto la celebrazione di una ricchezza che la Biennale ha e che vuol mostrare al mondo: l’asac, il suo archivio dove la storia della Biennale scorre come una Wunderkammer del Novecento, dagli anni ‘20, con l’avvento del Fascismo e la chiusura al mondo, alla fine del Secolo
Breve, con la Biennale d’arte di Harald Szeeman del ‘99 che diventa «dapertutto». Ottant’anni di storia in mostra e migliaia di visioni diverse che scorrono davanti al visitatore. Si scopre così dalle lettere e dai documenti esposti, che nella sua visita alla Biennale del ‘34, Hitler non apprezzò quasi nulla. Gli venne regalata una veduta lagunare di Fioravante Seibezzi che rifiutò, aggiungendo che per lui non rappresentava Venezia e optando invece per il dipinto Barche di Memo Vagaggini: Ghe lo regalo mi, disse il Conte Volpi, padre della Mostra del Cinema, ad Antonio Maraini, scultore, intellettuale e in quegli anni segretario generale della Biennale. Sospinti dalla corsa della storia, si vedono i Giardini divenire un «Villaggio del Cinema» dall’8 settembre del ‘43 alla Liberazione nel ‘45: chiusa Cinecittà la laguna era considerata poco bombardabile e il cuore della Biennale inizia così a pulsare a ritmo di ciak: con una manciata di pellicole, non memorabili, girate in quegli anni nei padiglioni convertiti a studios, da Fatto di cronaca di Piero Ballerini a Trent’anni di servizio di Mario Baffico. Con la fine della guerra cambiano gli ordini mondiali e la Biennale assorbe le tensioni della Guerra Fredda e dei nuovi schieramenti: «vittima» eccellente, come si può leggere nei documenti in mostra, sarà per esempio Bertold Brecht, invitato a presentare la sua Madre
Coraggio e i suoi figli per la Biennale Teatro, che si vedrà cancellare la rappresentazione per il rifiuto del governo italiano di concedere il visto a un artista proveniente dalla Germania dell’est. Nel viaggio lungo testimonianze e visioni, si attraversa il 68 e le contestazioni alla Biennale, dove per gli artisti c’era troppa polizia e dove la Mostra del Cinema non rispondeva più ai fermenti che stavano esplodendo in tutto il mondo. Gli occhi si soffermano sulla sala dedicata alla censura e agli «scandali» della Biennale con i volti di Carmelo Bene, Cicciolina, Jeff Koons o Gino de Dominicis, il cui ragazzo down esposto alla Biennale fece infuriare Pasolini. Si va verso la fine, con la Biennale che sempre più si apre al mondo, ai giovani, raccoglie le contestazioni e le fa fiorire, come nella sala dedicata al Cile, con il pannello originale di Sebastian Matta. «Questo è un viaggio attraverso la storia della Biennale e attraverso l’archivio, che ripercorre quelle tappe in cui la Biennale si è confrontata con la storia del Novecento - spiega Alemani, guida d’eccezione nel giorno dell’inaugurazione -. Volgersi al passato per andare avanti vuol dire imparare dalle crisi. Abbiamo passato guerre e cose peggiori del covid, ma bisogna avere umiltà e imparare a gestire il futuro. L’isolamento del lockdown penso produrrà opere più intimiste, in questo periodo ci siamo resi conto tutti degli sprechi giganti delle opere o della cultura. È un momento interessante e voglio ascoltare gli artisti per capire cosa questo periodo ha lasciato in loro». Nuove prospettive e nuovi conflitti, di cui vedremo la storia nelle prossime Biennali.