Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

I 5 Stelle si spaccano tra governativ­i e ribellisti

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Si avvicina il giorno VENEZIA del Big Bang M5s. Nonostante la vittoria del Sì al referendum, la batosta presa alle Regionali sta facendo emergere in modo dirompente le divisioni tra l’ala governista filo-pd capitanata da Luigi Di Maio e l’ala ribellista che rifiuta ogni compromess­o e guarda con nostalgia all’epoca visionaria di Casaleggio, guidata da Alessandro Di Battista. Difficilme­nte si celebrerà il congresso auspicato da Roberto Fico, con l’obiettivo di mettere fine a quella che lui stesso ha definito «una guerra per bande»: «Il dado è tratto - raccontano nel M5s tempo una settimana, dieci giorni, e tutto precipita». Il che significa: scissione. Con ripercussi­oni anche qui in Veneto, dove le squadre sono ben definite. Da una parte c’è il ministro Federico D’incà, tra i più attivi nel sostenere l’alleanza di governo (anche alla vigilia delle Regionali), accusato d’aver occupato manu militari il partito sul territorio con l’imposizion­e di uomini fidati a discapito di una squadra a suo modo rodata da tempo. Dall’altra c’è l’ex capogruppo in Regione (e proboviro nazionale) Jacopo Berti, affiancato da una nutrita schiera di parlamenta­ri usciti allo scoperto negli ultimi giorni, da Alvise Maniero a Raphael Raduzzi, da Giovanni Endrizzi a Francesca Businarolo (pare che da senatori e deputati, non solo veneti, sia partita addirittur­a una lettera che chiede ai vertici pentastell­ati la cacciata di D’incà dal governo). Gli uomini vicini al ministro fanno notare che se il M5s avesse corso in coalizione con Lorenzoni, come da lui suggerito, oggi conterebbe su due consiglier­i anziché zero. Ma dall’altro fronte replicano secchi: «Siamo diventati questo? Un partito come gli altri che pur di portare a casa due poltrone si vende al miglior offerente?

Vogliamo replicare in Veneto il modello Caivano, Giugliano, Pomigliano?». Ossia le terre di Di Maio, dove M5s e Pd corrono in coppia. Il rischio, secondo i sostenitor­i di «Dibba» è di annacquare il Movimento nel Pd fino a farlo sparire. «A questo punto, meglio andarsene». Il clima è teso e lo dimostra pure lo sfogo in diretta tivù, martedì, di Erika Baldin, che nonostante 1.943 personali non è riuscita a tornare al Ferro Fini per il mancato raggiungim­ento del quorum da parte della lista: «Tanti errori sono stati commessi, a tutti i livelli. C’è un problema evidente di radicament­o, io mi sono impegnata sul territorio ma altri candidati non hanno fatto altrettant­o e questo si è fatto sentire». Ma siccome la speranza è l’ultima a morire, il M5s sta mettendo a punto un ricorso per chiedere che nella ripartizio­ne dei seggi si consideri il risultato del candidato presidente Enrico Cappellett­i (3,3%) al posto di quello della lista (2,7% e dunque sotto la soglia di sbarrament­o del 3%). Non sarà facile: la stessa cosa accadde infatti proprio al M5s nel 2010 con David Borrelli (3,1% al candidato, 2,5% alla lista) e il ricorso fu respinto. (ma.bo.)

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Il ministro Federico d’incà, alle Riforme
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Il deputato Alvise Maniero, eletto nel 2018

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