Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
IL CONFINE E UNA CITTÀ UNICA
Il mare ha dato alla città coraggio e parole. Dai pescatori di Tergeste alla grande festa popolare di oggi
Eccolo, il mare. Eccolo, che sbuca da Sistiana, dalla costiera, ti acceca, e senti che sei arrivato a Trieste. Eccolo lontano: dal Carso, da Monte Grisa, largo, burrascoso, nero. Eccolo vicino, quieto, dal Molo Audace, Piazza Unità d’italia, dal Porto Vecchio, e poi dovunque, anche dove non si vede, nei vicoli di Cavana, del Borgo Teresiano, Piazza Hortis, dove è solo un profumo, una luce, una candela. Eccolo, a Barcola, pieno delle migliaia di vele, colorate, in gioia.
Quando esplode, nei giorni della Barcolana, e durante la gara, quel mare sempre solcato, ma mai affollato, mai davvero dominato, che diviene all’improvviso più pacifico, pescoso di anime veloci che provano a imbrigliarlo, a vestirlo. Quel mare è il destino di questo piccolo borgo di pescatori insediato dai tempi di Roma, Tergeste, sempre alleato dell’austria contro Venezia che dominava l’adriatico e razziava i suoi nemici, sempre piccolo borgo per secoli, senza Rinascimento, ma diventato porto franco nel 1719 e poi forse il più grande porto d’europa, la bocca di tutto l’impero, container e ferrovie, fumo e assegni, assicurazioni e letteratura, Busara e cren, bora e nero in b, Borgo Teresiano e San Giacomo, Italia e non Italia, tra Hong Kong, San Pietroburgo e Calcutta, luce dell’ottocento, buio del Novecento, tra irredentismo e foibe vicine, zona A e zona B, Osimo e Muggia, Basaglia a San Giovanni e la ferriera, l’uomo (Omo) Vespa delle canzoni popolari, che pungeva le donne nel sedere con uno spillone, il tram di Opicina e i grandi alberghi, le frasche delle osmize, le fave, gli istriani cacciati dalle loro case, dai loro corpi, i caffè, i professori, i licei e l’università, i libri, le signore vestite bene, quelle con i vestiti sbagliati, verde e fucsia, i capelli corti delle città di mare, le ragazze chiare, sportive, quelle slave, le gambe toniche, alte, gli anziani con la cravatta e il maglione coi bottoni, il barone Revoltella, l’affanno per salire a San Giusto, tutta la senape e tutte le poesie.
Eccola, Trieste, Trst, che senza mare non esisterebbe, che senza mare non avrebbe parole e coraggio, e un poca di pazzia, il Miramare costruito nel luogo in cui Massimiliano d’asburgo si riparò da una tempesta prima di farsi incoronare in Messico e rivederlo mai più, e il Pedocin, lo stabilimento dove ancora uomini e donne vanno separati, e Barcola, dove si scappa durante l’anno a passeggiare, e d’estate a prendere il sole, e poi qui la seconda domenica d’ottobre, tutti, con la propria barca, vecchia o nuovissima, lenta o competitiva, bella o da vergognarsi, ma senza vergognarsi, pronta per vincere o solo per finire e cucinare e fare un brindisi, con qualche vip ma anche senza, chissenefrega dei vip, con qualche campione della vela da ammirare, e poi trovare al bar in via XX Settembre, e poi tutti insieme, tutti uguali, tutti a gareggiare la stessa gara, l’olimpiade e il Carnevale. È bello che di questa città, l’evento più visibile, forse la gara più trafficata del mondo, o d’europa, sia proprio la Barcolana, quando finisce l’estate.
È bello che di questo luogo austero, borghese, morto e rinato cento volte, la quarta città per grandezza dell’impero Asburgico, la tentazione di Tito, il presidio del mondo libero, di questo luogo splendido, tirato a lustro negli ultimi anni, alla moda e in forma, di questo infinito confine, confine di tutto, confine ventoso e ricco, e anche povero, e sempre dignitoso, di tutto questo mondo che sta in una sola città la festa più splendida sia la Barcolana, questo mare di persone nel mare, questo mare di paesi, di accenti, di bandiere, di occhi, di volti, di cren, tutti uniti lì, dove confine non c’è, non c’è più, in fondo forse non c’è mai stato.