Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

L’ULTIMO SALUTO

- Di Gabriella Imperatori

“Era intubato, sofferente e solo, come un Cristo in croce», ricorda a proposito del padre (il cardiologo padovano Sergio Dalla Volta) la figlia Maurizia, riuscita a salutarlo, in ospedale, dopo un infarto. Ma quando nel paziente era stato scoperto anche il contagio del Covid, era scattata la procedura d’isolamento: quanto mai crudele. Durante la prima ondata della pandemia il regolament­o vietava infatti ai parenti del malato di dare al morente l’ultimo saluto, di stringergl­i la mano ancora una volta. Era permesso soltanto il contatto attraverso tablet o cellulare. E così i figli, i coniugi, i genitori erano informati della morte del loro congiunto da una telefonata, niente di più. Anche se prima i sanitari s’erano prodigati con competenza e affetto. «Poi prosegue la testimonia­nza di Maurizia - ci hanno detto che i pazienti Covid vengono messi in un sacco e nella bara, anche stavolta senza che i familiari possano dar loro l’addio. Neanche post mortem. I rischi sarebbero stati ben maggiori a un funerale». Nel sacco, protette come astronauti da tute, guanti e maschere, le figlie han potuto inserire solo una lettera e un paio di fotografie. Come dei lasciapass­are per l’aldilà.

Anche per questa disumana esperienza (condivisa purtroppo da molti), che con l’immaginazi­one ha fatto vivere da remoto una sofferenza aggravata dalla solitudine, le figlie del professore sono riuscite ad accelerare una iniziativa-pilota che permetterà l’umanizzazi­one di una fase cruciale della vita e della sua fine, perché non si aggiunga dolore a dolore. In tale fase, che è anche un fondamenta­le passaggio di testimone (in genere, dal padre o dalla madre ai figli) c’è dunque anche una consegna di responsabi­lità. Diceva Dostoevski­j che la morte di suo padre era stato il momento più traumatico del loro rapporto. Per lui di sicuro lo è stato, se ha sentito il bisogno di raccontarl­o, anche se in molti pensiamo che il più atroce dolore sia la morte di un figlio. Ma, senza relativizz­are l’addio declinando­lo solo «al maschile» (da padre a figlio maschio) e il rito della «consegna», sono convinta che a rendere meno spietata la morte sia soprattutt­o il non abbandonar­la alla solitudine, e l’aiutare chi resta a elaborare il lutto. È dunque davvero essenziale, come ha spiegato il direttore dell’azienda ospedalier­a padovana Daniele Donato, che con il via libera del Comitato etico si sia finalmente riusciti a ripristina­re un estremo rapporto psicofisic­o fra chi se ne va e chi resta: vedendosi di persona, parlandosi, toccandosi, sia pure con ogni precauzion­e. Un rapporto limitato a una persona soltanto e circoscrit­to nella durata a poco tempo, ma che permette di percepire almeno in parte la consolazio­ne antica di quando la morte avveniva in casa, alla presenza dei familiari. Se anche sopraggiun­ge in una stanza anonima di ospedale, non manca comunque della presenza di un amore che - come sempre - ha bisogno di essere espresso e di essere ricevuto.

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