Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Bici & bollicine: nella terra della fatica
Tra i filari del patrimonio Unesco, dove la gente rende omaggio ai padri e alle stagioni
Il genio VALDOBBIADENE (TREVISO) magari è incompreso, la bravura può confondersi con la fortuna, ma la fatica, beh la fatica la capiscono tutti. Anche quelli che non l’hanno mai fatta. La bici è empatica, commuove come un lutto ed è contagiosa quanto una risata. Prendine una e ti racconterà una storia, parlaci e ti porterà indietro negli anni del «come eravamo». Forse è per questo che abbiamo tutti il «naso triste da italiano in gita» (copyright di Paolo Conte) noi che stiamo qui ad «aspettare Bartali», sopra Ca’ del Poggio dove la salita scollina e svolta in discesa così da dar tregua ai corridori della quattordicesima tappa del Giro; noi spettatori assiepati e i cicloamatori della domenica, chi più allenato, chi meno - alcuni dei veri cinghialoni direbbe il presidente della Campania De Luca - i più teneri e commoventi, questi, perché sono loro i migliori cantori della fatica. Poi ci sono gli atleti, naturalmente, che però ancora non si vedono. Siamo dunque qua, tutti insieme, senza i «giornali che svolazzano» - gli anni sono cambiati - con le sneakers al posto dei sandali e la stessa speranza di far incazzare i francesi. E non solo loro.
La gente saluta l’elicottero poi magari a casa si vede - chi si è portato lo sgabello, chi un furgone intero e taglia una salama. «Un bicchiere di prosecco?» E certo che sì, che altro si potrebbe bere qui? Ca’ del Poggio è il punto più alto della strada del Prosecco, c’è quella di sopra e quella di sotto, insieme formano un anello che da Conegliano va a Valdobbiadene e ritorno. I motociclisti della Polizia sono i soli a farlo tutto: arrivati al traguardo, girano per quella a sud e riprendono da capo a scortare gli atleti alla partenza. Hanno moto da far invidia a un raduno di bikers, annunciano il corridore con i lampeggianti, solenni come i corazzieri con il tricolore, il che è più di una sicurezza: dietro c’è l’omaggio che lo Stato italiano rende alla storia del ciclismo nazionale, o così almeno viene percepito.
Il corridore non si gode il panorama, non può, lo sguardo fisso sulla strada, le gambe sui pedali, solo, non ha gregari, non un gruppone nel quale ripararsi - è una tappa a cronometro - deve fare i conti solo con se stesso. La fatica, l’auscultarsi dentro cuore e respiro, quanto ce n’è ancora, se basterà e quanto basterà, il timore che uno dei due ti pianti in asso. Ma se potesse alzare lo sguardo vedrebbe l’altrui fatica, di intere generazioni che hanno scolpito le colline fino a farne una spettacolare architettura produttiva dichiarata patrimonio universale dall’unesco. I colli arredati a vitigno sembrano moicani con gli alberi in testa, sotto, a cerchi concentrici, i filari si allargano a disegnare le isoipse del Prosecco.
Fatica e bollicine, lo zen del vino bianco e la manutenzione della bicicletta. Chi fa bici lo sa, è uno sport ripetitivo ma non noioso - in fondo ha solo due posizioni, seduti o in piedi sui pedali - è ipnotico, il più vicino allo yoga degli sport in movimento e il più prossimo alla meditazione dei maestri indiani: concentrarsi sul respiro, sentire il proprio ritmo, la pedalata, il battito del cuore fino a svuotarsi di ogni pensiero e diventare una sola cosa con la bicicletta. Meditazione. Emmanuel Carrere ci ha fatto un libro sullo yoga, l’ultimo, strano che non ci abbia pensato.
Ma è qui, sui filari del Prosecco, che il ciclismo rende omaggio ai padri e alle stagioni, la semina e il raccolto, rassicura in quanto aspetta, fatica ma in sella sai sempre quale sarà la pedalata successiva. È così che aspettando Bartali vengono su pensieri come pedalate e non importa da dove cominciano. La bici è la storia.
Chi sa, ad esempio, se c’era anche quella del prete? Fino a tutti gli anni ’60 esistevano solo tre bici, quella da corsa e quella da passeggio, quest’ultima da uomo e da donna. La bici del prete era a parte: aveva le ruote da 28 pollici e le pedivelle più basse per non intralciare la tonaca. La bici talare consacrava la condizione sacerdotale rendendola indivisibile con quella dei laici e la Chiesa faticò parecchio ad accettarla. Pio X, il papa Sarto che non nasceva lontano da qui, nel 1894 ne decretò la «proibizione assoluta» per la «dolorosa impressione che lascia nei buoni e il disprezzo che suscita nei tristi il contegno di un prete in bicicletta». Anche le donne patirono l’abiura - «scostumate» - la bici è anche la storia della loro emancipazione. Solo più tardi la Chiesa ne riconobbe «la filosofia popolare improntata all’etica della fatica e del sudore».
«Questi non sudano neanche in sauna - dice un ciclista di questi della domenica - sono fenomeni». Ma si sbaglia. Intanto si chiacchiera del più e del meno - la bici li comprende entrambi - dell’avvento della Gravel (bici da ghiaino), della Mtv e di quella elettrica, di «quelli che con la batteria ci barano» e tradiscono il giuramento della fatica, di come in tempi di magra il mercato della bicicletta sia comunque esploso. «Non ne abbiamo più in negozio - racconta il titolare del «Due ruote sport» arrivato con il furgone e le sue insegne - non è questione di bonus, è esplosa la domanda mondiale». Ma eccoli che arrivano alfine, la gente si leva e grida «dai che è finita», «tieni duro», «grande». Altro che non sudano, il naso triste ha la goccia e i visi sono sfigurati e l’affetto della folla è come un balsamo per questi ragazzi: la loro smorfia accenna a un sorriso, la fatica trova conforto. È che non possono fermarsi, ma se potessero si troverebbero tra noi, come noi.