Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
AMORE E FRAGILITÀ FATALI
Fra i delitti consumati all’interno di famiglie o exfamiglie, sono soprattutto i femminicidi, sempre esistiti ma che sembrano paurosamente moltiplicarsi (almeno 10 solo nel 2021!) a fornire spiegazioni: in cui trovano posto l’orgoglio ferito dell’uomo, la rabbia per la nuova ancorché relativa indipendenza della donna, il senso di possesso, il desiderio di vendetta… : tutti motivi in cui il grande escluso è l’amore. Ci sono invece altri omicidi, spesso seguiti da suicidio, in cui è proprio l’«amore», anche se in forma sbagliata, la molla per il delitto: come nei due episodi che si sono susseguiti a distanza di un paio di giorni in due località venete, una nel vicentino l’altra nel trevigiano. Le cronache li hanno raccontati diffusamente. Nel primo caso, il marito omicidasuicida era un piccolo imprenditore in pensione, e la moglie era in carrozzella a seguito di un’operazione. Una coppia molto unita: un amore giovanile a cui aveva fatto seguito un re-incontro in età più avanzata che aveva reso i due coniugi inseparabili. L’uomo, stressato dalla condizione sofferente della moglie, l’ha uccisa nel sonno e subito dopo s’è dato a sua volta la morte. Solo una parola scritta («perdonème») l’ha lasciata a dar segno della propria consapevolezza e colpevolezza, fors’anche causata in parte da una delle tante depressioni da pandemia (il Covid non aiuta). Sta di fatto che non aveva neppure pensato di procurarsi un’arma, ma ha usato l’arma classica da cucina, il coltello.
Idue anziani, com’è stato scritto, non erano abbandonati alla solitudine. Né dai parenti che li visitavano spesso né dal Comune, che forniva loro pasti caldi e aiuto domestico. È ipotizzabile allora che abbia prevalso nell’uomo un senso di inadeguatezza per non saper aiutare la moglie tanto amata. Era considerato un uomo buono, generoso e solare, ma forse non era dotato di una resistenza capace di incoraggiare la donna della sua vita. Quando un dolore grave irrompe in una quotidianità serena, è fondamentale il coraggio, quel coraggio che non è mancato ai genitori di Bebe Vio e ai familiari di Alex Zanardi. Ma, per citare Manzoni, il coraggio uno non se lo può dare. Dopo solo due giorni, ecco un’altra tragedia. Stavolta è un padre che uccide il piccolo figlio dopo aver saputo che era affetto da un deficit mentale. «Che vita avrà?» s’è chiesto, e lo ha scritto in una lunga lettera. La paura per il futuro di una persona che non potrebbe avere una vita normale (e quindi «è meglio» ucciderla prima che la vita sub-normale si allunghi), in modi diversi fa tornare alla mente un passato remoto, quando il Taigeto e la Rupe Tarpea venivano usati per sopprimere i malati inguaribili, di mente o di corpo. O un passato prossimo, quando l’ideologia nazista aveva cinicamente deciso di far fuori «le bocche inutili». Però il messaggio cristiano, ormai introiettato anche dai non credenti, il volontariato, la solidarietà han saputo suggerire soluzioni diverse. Almeno per chi ha la forza di cercare aiuto. Non lo ha cercato quel padre, ancora giovane, pur descritto come amorevole, accudente, protettivo, qualità che si aggiungevano a un carattere allegro e a varie passioni sportive: così nessuno aveva potuto prevedere questo dramma (a posteriori, tutti ricordano sempre la normalità apparente). Anche stavolta han pesato invece la disabilità, la disperazione, la paura, la mancanza di resilienza. Forse si potrebbe aggiungere, per questo dramma seguito a ridosso del primo, l’effetto imitazione. Come a dire: mi trovo in una situazione che mi distrugge e mi è insopportabile. Un altro s’è appena trovato in una situazione simile, e ne è uscito con una soluzione tragica. Non ho altra soluzione che la sua.