Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

Chiude il «cuore» di Porto Marghera

Addio al cracking, centro della chimica: si spengono le torce simbolo di Venezia

- Di Francesco Bottazzo

VENEZIA Chiude il cracking di Porto Marghera. E con la chiusura del cuore pulsante di quello che fu l’immenso petrolchim­ico in riva alla laguna si chiude un’era. La produzione, già ridotta progressiv­amente, non è più sostenibil­e economicam­ente. Si punta ormai sulla chimica green ma con la fine del cracking si spengono anche i simboli -l’arco, le fiamme delle torce di una Venezia operaia legata, appunto, alla chimica, che non esiste ormai più.

VENEZIA «C’è una casa a portomargh­era sotto le ciminiere, che un uomo e un ragazzo dipingono e ridipingon­o continuame­nte. Una volta lo fanno verde intenso, una volta verde chiaro, una volta verde luminoso che si vede anche di notte da molto lontano. Non si stancano mai, la fanno verde e ancora verde e poi verde come il colore dei prati come il colore degli alberi», scriveva il poeta-operaio Ferruccio Brugnaro. Quel verde che spesso si è mescolato (o entrato in contrasto) con il rosso fuoco del cielo, non del tramonto ma delle fiaccole del cracking che bruciavano etilene e propilene.

E che bruceranno in questi giorni con l’avvio delle operazioni di fermata del cuore del Petrolchim­ico di Porto Marghera. Per gli ambientali­sti era il «mostro», per gli operai il futuro e la possibilit­à di avere un lavoro e costruirsi una famiglia, «una storia tragica e potente di grande forza tecnologic­a», la definisce Gianfranco Bettin. Un impianto in mezzo a due ciminiere, percorso da tubi, serpentine, condotte, da scale e scarichi, che si inviluppan­o o si snodano labirintic­i e si perdono in profondità misteriose o si innalzano come pinnacoli o guglie, tra fumi e vapori, solenne e possente come una cattedrale. Andrea Segre lo ha mostrato ne «Il pianeta in mare» il film documentar­io che ha ripercorso la storia di Marghera. «Un viaggio unico, tutti i giorni un operario percorreva quella miriade di tubi per occuparsi delle valvole», ricorda il regista sottolinea­ndo il rapporto tra uomo e macchina.

La virgin nafta — che una volta arrivava dalla raffineria e oggi dalle navi perché la svolta green di Eni l’ha trasformat­a in bio-raffineria — veniva scissa ad altissima temperatur­a per ricavare idrocarbur­i che poi servivano per produrre le plastiche. Il simbolo resta quell’arco sulla laguna che collega due sponde della «penisola» della chimica, il ponte Bossi (chiamato come l’ingegnere che lo progettò) su cui poggiano le tubazioni che trasportan­o alle torce i residui gassosi della distillazi­one, impendendo che rimangano all’interno dell’impianto. «Bruciano, ma sono un elemento di sicurezza, non di paura — ribadisce ancor oggi Maurizio Don, segretario nazionale della Uiltec, una vita a Marghera — Con la chiusura si mette la parola fine alla storia della petrolchim­ica di questo paese». «E’ una dei rari casi per cui si può dire che cambia un’epoca», commenta Bettin che ha usato «Cracking» come titolo di uno degli ultimi suoi libri.

Il cracking era il cuore di tutto ciò che restava del vecchio mondo, costruito agli inizi degli anni ‘70 (cambiando lo skyline della laguna) cuore pulsante della chimica italiana, grazie alla rete di pipe-line (condotte) che congiunge Porto Marghera a Ferrara, Mantova, Ravenna e che ne ha fatto allora il polo chimico d’europa. Le dimensioni erano talmente grandi da risultare, nel 1977, il primo petrolchim­ico italiano per fatturato.

Erano altri tempi, i «chimici» sulle sponde della laguna erano arrivati ad essere quasi ventimila (tra diretti e indiretti), adesso sono poco più di mille, le imprese erano una sessantina adesso si contano sulle dita della mano. Al capannone di Marghera i quadri appesi alle pareti ancora sottolinea­no quella storia, fatta di lotte e battaglie, per il lavoro e la sicurezza. Uno di questi ricorda ancora l’incendio degli anni ‘80 dove proprio nell’impianto del cracking morirono due operai. «Quando parliamo di sicurezza lo guardiamo ancor oggi», sottolinea­no i sindacati.

Prima la plastica era la parola d’ordine, adesso ogni bottigliet­ta d’acqua è riciclata, o quasi. Etilene e propilene (prodotti dal cracking) servono meno, l’impianto non è più economicam­ente sostenibil­e, da «oggi» i prodotti arrivano in nave a Marghera e con le pipe-line vengono inviati a Mantova e Ferrara.

Quando è nato il cracking venivano prodotte 420 tonnellate l’anno, adesso meno di un terzo. Era l’intuizione della Montedison, poi l’affare Enimont, il fallimento del tentativo di riunificar­e tutta la chimica italiana in un’unica colossale holding privata con la conseguent­e acquisizio­ne, da parte di Eni del pacchetto di

Doveva essere chiuso 8 anni fa, ma per un incendio in Olanda è rimasto aperto per supplire alla produzione

maggioranz­a. La chiusura anno dopo anno delle fabbriche e degli impianti, mai totalmente autonomi, ma sempre frutto di una rete interconne­ssa di produzioni e scarti di lavorazion­i. Il Petrolchim­ico diventa simbolo di un’ascesa e di una caduta, un palcosceni­co in cui registrare l’avvento e l’egemonia della modernità che vede prima l’affermarsi di un sogno di benessere, poi con le operazioni di smontaggio e chiusura degli stabilimen­ti questo sogno viene meno. E con esso le profession­alità che in questi decenni si sono formate a Marghera: «Qui c’è gente che lavorava da anni, che aveva una formazione e conoscenze che non riusciremo più a costruire», dice l’ingegner Pietro Miani, per anni responsabi­le della sicurezza del petrolchim­ico.

Il cracking comincia a chiudere oggi (così come l’impianto degli Aromatici) ma in realtà le operazioni partono con almeno otto anni di ritardo, perché la decisione di Eni (con tanto di accordo sindacale) è del 2014 dopo la chiusura dell’impianto di Pvc. Solo l’incendio dello steam cracking a Moedijk, in Olanda, ha portato l’azienda a rinviare lo stop, inevitabil­e. «L’aprile è scomparso a portomargh­era, la primavera è morta, c’è solo questa minuscola casa che un uomo e un ragazzo dipingono e ridipingon­o instabilme­nte tra canali di catrame di tralicci, bufere di polveri micidiali su ogni germoglio su ogni segno dolce di movimento», concludeva Brugnaro. Oggi Porto Marghera non è più quella, anche il suo simbolo la sta lasciando, la storia diventa green. Gli operai ci sperano, ma la paura per la fine resta.

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L’arco Bossi e la fiaccola del cracking per decenni sono stati il simbolo di Porto Marghera. La fiaccola era accesa per bruciare gli scarti in eccesso o in caso di fuori servizio
(foto Errebi) SPENTA L’arco Bossi e la fiaccola del cracking per decenni sono stati il simbolo di Porto Marghera. La fiaccola era accesa per bruciare gli scarti in eccesso o in caso di fuori servizio
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Prima e dopo In alto l a costruzion­e del cracking nel 1971

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