Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
«Veneto Banca fu imprudente Consoli dominus ma non solo»
I magistrati: la crisi andava governata meglio
Veneto Banca, Vincenzo Consoli non ha agito da solo. Ma «ha impersonato la banca per quasi vent’anni» ed ha avuto un ruolo «di assoluta dominanza». Sono i passaggi decisivi delle motivazioni, rese note ieri, con cui i giudici di Treviso hanno condannato l’ex manager della popolare a 4 anni. I giudici dicono che la crisi del 2008 andava gestita con più prudenza e dichiarano inesistente il «complotto» per la fusione con Bpvi. Oltre a censurare l’ex presidente Flavio Trinca: «Ha dato di sé un’immagine indecorosa».
TREVISO Data la complessità della banca, non si può ritenere che «Vincenzo Consoli abbia agito da solo, all’insaputa o previa manipolazione o costrizione di chi rivestiva cariche apicali, come l’ex presidente Flavio Trinca, che per quasi venti anni ha avuto un ruolo di primo piano nell’interlocuzione con Banca d’italia, i condirettori generali Flavio Marcolin e Mosè Fagiani, il quale avrebbe avuto un ruolo di primo piano nell’ideazione delle operazioni commerciali finalizzate a garantire il buon esito dell’aumento di capitale... Ma ciò non comporta l’esclusione di Consoli, che ha impersonato la banca per quasi vent’anni».
Consoli, insomma, unico a pagare per il crac, per quanto non fosse l’unico a sapere. Ma lui, di Veneto Banca, anche per la scarsa caratura del consiglio di amministrazione, era il dominus per cui passavano le strategie, compreso l’occultamento dei numeri fondamentali agli organi di vigilanza e che «barò» sul prospetto dell’aumento di capitale del 2014, per far passare le azioni della popolare come appetibili quando, in realtà, già a fine 2013 la banca era nel baratro.
In circa duecento pagine il collegio dei giudici - Umberto Donà, Alberto Fraccalvieri e Carlotta Brusegan - disegna la fine di Veneto Banca attribuendone la responsabilità principale all’ex amministratore delegato e poi direttore generale. Le motivazioni della sentenza con cui Consoli è stato condannato, il 4 febbraio, a 4 anni (più cinque di interdizione dai pubblici uffici e la confisca di beni per 221 milioni di euro) ripercorrono il filo logico di quanto emerso a dibattimento. «Da parte dei testi - si legge - non è emersa alcuna ragione di astio o pregiudizio nei confronti dell’imputato». Specie per Bankitalia, le cui azioni, scrivono i giudici, erano «animate dalla urgente necessità di risanare un istituto in crisi».
I giudici aderiscono alla tesi secondo cui già a fine 2013 Veneto Banca era in dissesto: «Secondo i liquidatori - scrivono - il patrimonio di vigilanza era sovrastimato tra i 748 e gli 826 milioni, rendendo impossibile l’esercizio del credito». È il risultato del mancato scomputo delle cosiddette «baciate», gli acquisti di azioni della popolare finanziati dalla banca stessa, stimabili intorno ai 157 milioni ed elevato da Bce a 183,4. E anche di maggiori perdite sui crediti, che avrebbero superato i 376 milioni, superando la soglia minima di capitale di «soli» 60 milioni di euro.
Per la difesa, sui crediti, divenuti inesigibili o di difficile recupero, avrebbe influito la crisi, che però i giudici definiscono (un po’ a sorpresa, a dire il vero) «un fenomeno ciclico». «Iniziata nel 2008 - è la linea dei giudicanti - poteva e doveva esser governata meglio dagli organi aziendali con l’adozione di modelli comportamentali più prudenti, mentre l’espansione del gruppo (le acquisizioni esterne, ndr), che avevano comportato anche l’acquisizione di ingenti magazzini di partite deteriorate, è il frutto di scelte aziendali di cui Veneto Banca non può dolersi a posteriori».
Consoli era di fatto, a leggere le motivazioni, la figura preminente della popolare. Lo era stato negli ultimi due decenni in cui «la Banca d’italia lo aveva già censurato per l’eccesso di poteri accentrati» e soprattutto la scarsa incidenza del cda: «La sostanziale identificazioni dell’istituto con Consoli rende inverosimile la sua estraneità». E la sua posizione di «assoluta dominanza» sulla banca gli avrebbe permesso non solo di conoscere la reale consistenza patrimoniale ma anche di tenerla «coperta» alla vigilanza, a cui avrebbe consapevolmente taciuto la gravità della situazione.
Sul falso in prospetto i giudici dicono che «dal dibattimento emerge la riconducibilità a Consoli dell’intero sistema organizzativo e di gestione dell’istituto. Il prospetto informativo del 2014, non riportando le informazioni corrette sul capitale finanziato, non ha dato conto delle ricadute sulla situazione economica e finanziaria della banca e sulle liquidità delle azioni». In sostanza diede una idea «profondamente diversa da quella prospettata al pubblico». Nell’intento di assicurare il successo dell’aumento di capitale alterò la percezione dei risparmiatori che, sulla base delle false informazioni, fecero affidamento sulla solidità della banca.
Il quadro Con perdite sui crediti e «baciate» istituto in dissesto già nel 2013 Bankitalia agì per risolvere l’emergenza