Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
«Sommersi di denunce, la nuova legge funziona»
La procuratrice Sanzari: non trascuriamo niente
«La mole di denunce e di cause è così alta che la lentezza della giustizia si ripercuote inevitabilmente sulla sicurezza delle persone più fragili. Ma la nuova legge sul codice rosso funziona». Valeria Sanzari è procuratrice aggiunta a Padova ed è capo del gruppo di pm che si occupa di «fasce deboli».
PADOVA Valeria Sanzari è procuratrice aggiunta a Padova ed è capo del gruppo di pm che si occupa di «fasce deboli». Sulla sua scrivania e su quella dei colleghi arrivano centinaia di segnalazioni di violenze in famiglia al mese. E c’è da correre, perché con la nuova legge sul «codice rosso» non si può far passare troppo tempo dalla denuncia all’allontanamento del marito o compagno violento. Eppure le donne continuano ed essere vittime. Caso emblematico è quello di Stefano Fattorelli, cinquantenne di Caprino Veronese, già condannato per l’omicidio della ex, Wilma Marchi, nel 1999, giudicato parzialmente in grado di intendere e volere, condannato per questo a quindici anni, di cui solo sei passati in carcere. Era uscito di galera così presto anche per le valutazioni positive dello psicologo che lo aveva in cura in carcere. In seguito aveva intrecciato una relazione con un’altra donna, finita nel 2011 a sua volta vittima di stalking da parte dello stesso Fattorelli, che per quel reato aveva preso due anni. Ma la pena non è ancora definitiva, aveva avuto una misura cautelare all’epoca, era uscito di cella ed era ancora libero. E oggi sulla sua fedina penale pesa un nuovo reato: tentato omicidio della nuova convivente, colpita martedì da varie coltellate e ora in ospedale, non in pericolo di vita, ma comunque grave.
Grande impegno, ma metà dei fascicoli vengono archiviati perché le violenze sulle donne non sono dimostrate
Dottoressa com’è stato possibile arrivare a questo punto?
«Non entro nel caso specifico perché non conosco tutti gli elementi, il fascicolo è affidato ad una brava collega che conosce bene i fatti, dico che dal 2019 la legge sulle violenze in famiglia è cambiata con l’applicazione del codice rosso, una misura che impone a noi magistrati di intervenire con estrema rapidità. Se la sua domanda, quindi, è se si fa abbastanza per proteggere le donne la risposta è: oggi sì. Dobbiamo però aggiungere un fattore che ha una grande rilevanza: in procura e alle forze dell’ordine arrivano migliaia di denunce ogni anno, alcune registrano fatti gravi e altri meno gravi, noi non me trascuriamo nessuna, ma non le nascondo nemmeno che almeno il 50% di queste denunce vengono archiviate perché non ci sono gli elementi per condannare gli uomini.
Tra denuncia e condanna passano anche tre anni, è un’eternità e questa lentezza si ripercuote sulla sicurezza dei più fragili
Questo vuol dire che i maltrattamenti spesso non possono essere dimostrati».
Ma è possibile che un uomo che ha commesso un omicidio esca dal carcere sulla base di una relazione di un solo professionista?
«Ripeto che non conosco le carte e non parlo degli ultimi eventi, tuttavia sì, il giudice decide sulla base delle valutazioni di un esperto: gli psicologi sono di norma dei professionisti che hanno la fiducia dei magistrati, nessuno può pensare che quelle relazioni siano compromesse o false, a meno che qualcuno non venga a denunciare irregolarità»
In questo caso la giustizia ha fallito secondo lei?
«No, la giustizia non ha fallito, i magistrati hanno fatto le loro valutazioni sulla base delle informazioni che avevano e delle leggi che c’erano in quel momento. Tuttavia una premessa è doverosa: la mole di denunce e di cause è così alta che la lentezza della giustizia si ripercuote inevitabilmente sulla sicurezza delle persone più fragili. Tra la denuncia e la sentenza di condanna rischiano di passare anche tre anni. Un’eternità. Spesso riusciamo a prevenire i fatti violenti con gli allontanamenti, costringendo gli uomini a seguire dei percorsi obbligatori che prevedono la frequentazione di psicologi per molto tempo, anche gli uomini violenti sono soggetti che vanno curati, ma poi bisogna intervenire sulle donne e sulla comunità in cui viviamo».
In che senso?
«Le donne devono imparare ad avere stima e rispetto di loro stesse, l’insicurezza le rende fragili e incapaci di ribellarsi alla violenza. E poi non dimentichiamo che viviamo in una comunità: alle forze dell’ordine arrivano centinaia di chiamate per segnalare spacciatori e furti, eppure tutti sentono le liti in famiglia nel proprio condominio, tutti vedono le vicine di casa tumefatte, ma anche le parenti e le amiche, dovremmo imparare a prenderci cura gli uni degli altri e a non lasciare cadere nel vuoto una confidenza, una richiesta di aiuto. Dovremmo cominciare ad ascoltare veramente la violenza più vicina a noi».