Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Il fattore maschio e l’educazione sentimentale
La giustizia? C’è ma non basta. Si denuncia, si arresta, si fanno i processi di primo, secondo ed ennesimo grado, si condanna, si carcera, si fanno i ricorsi, l’uomo violento esce, fa il «percorso», si «ravvede», poi è recidivo, lo si riarresta, lo si rinchiude di nuovo in modo preventivo e poi un altro processo. Ma prima o poi esce. Prima o poi. «Non si può tenere in carcere un uomo per sempre se ha pagato i suoi debiti con la giustizia», ha chiosato il presidente del tribunale di Vicenza rispondendo al grido di accusa e dolore della famiglia e del nuovo compagno di Lidija Miljkovic («Aspettiamo i giudici al funerale»).
Chi era Zlatan Vasiljevic, l’uomo che in una manciata di minuti ha ucciso l’ex moglie e la nuova (ex) compagna Gabriela Serrano? Due metri di stazza, bevitore seriale, manesco e vigliacco, prevaricatore fino allo stupro, capace di minacce abominevoli al punto da pensarle impossibili ma più vere del vero. «Vi ucciderò tutti», diceva. Probabilmente l’avrebbe fatto, probabilmente era pronto ad uccidere anche i figli. Nel suo orrore si è fermato a metà. Ma lo diciamo oggi, a carte scoperte. Il «prima» è tutta un’altra storia: dalla pur non piena sensazione di Lidija che il suo ex uomo se la stava «mettendo via» fino alla speranza che il suo recupero in un centro che cura gli uomini violenti si fosse davvero compiuto. Al punto da non denunciarlo più e facendogli rivedere i figli come forma di attenuazione della sua possibile violenza. Tutto giusto e tutto sbagliato. Sempre ex post.
Ora il ministro della Giustizia Cartabia ha aperto un’inchiesta sul doppio femminicidio assurto a simbolo, anche per la sua eco mediatica, di tutti i femminicidi ma probabilmente finirà in nulla. Forse ma forse qualcuno, nella filiera investigativagiudiziaria-riabilitativa, pagherà ma la sostanza non cambia. In un Paese garantista (giustamente) non si può tenere in galera un uomo violento «per sempre». Soprattutto se «ha pagato il suo conto». E poi c’è un altro aspetto, meno legato alla giustizia: si può carcerare il corpo di un uomo ma non la sua mente. La psicologia non è una scienza esatta, e nemmeno il giudizio di un riabilitatore di una comunità che non a caso non consegna alla fine del percorso il certificato di guarigione ma un attestato di frequentazione. Che serve al maschio in terapia come piccolo sconto di pena e che può essere un vero ravvedimento o un’enorme finzione.
Quindi? Che si può fare? Al di là di giustizia e redenzione, l’unica possibilità restiamo «noi». Bisogna rompere gli schemi con un «protagonismo» maschile, una nuova sensibilità che corregga i paradigmi e gli stereotipi del passato. Bisogna contaminarsi della cultura del rispetto dei sentimenti e delle libertà, serve fare educazione sentimentale (e non solo sessuale) nelle scuole e in tutte le «agenzie formative». E, cosa fondamentale, nelle famiglie. Un lavoro quotidiano, una goccia che scava nel marmo delle culture ancestrali e lo spacca sbriciolando violenza e sopraffazione.
E così le donne dovranno continuare a denunciare-denunciare-denunciare, e così la politica dovrà agevolare nuove reti sociali. Solo così si riuscirà a rompere lo schema rifiuto-reazione, ad annullare la violenza figlia degli arcaismi, a combattere le logiche dei femminicidi in una società dove i maschicidi sono (quasi) del tutto assenti. Solo così, forse, prima o poi, cancelleremo quelle sentenze di condanna a morte.