Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
Gaitonde, mistica e silenzio alla Guggenheim
Arte Apre una retrospettiva dedicata al «Rothko indiano», scomparso nel 2001. Approdano oltre 40 dipinti e lavori su carta . Le opere sono senza titolo. Uno stile che risente del buddismo, tra astrazione e spiritualità
Una pittura meditativa, pervasa da una quiete contemplativa stile Zen. Bisogna prendersi il giusto tempo per penetrare nel silenzio dei lavori e del mondo di Vasudeo Santu Gaitonde. Un genio solitario e reticente che non era interessato a dipingere seguendo la logica del mercato dell’arte e nemmeno mirava a ottenere l’apprezzamento popolare: «Io non lavoro. Mi rilasso. Aspetto e poi utilizzo i colori. Se ti concentri su te stesso da solo, qualcosa avviene».
Apre oggi alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia l’esposizione «V.S. Gaitonde. Pittura come processo, pittura come vita», a cura di Sandhini Poddar (curatrice Solomon R. Guggenheim Museum), prima retrospettiva in assoluto dedicata all’artista indiano, con oltre 40 dipinti e lavori su carta. La mostra giunge a Venezia dopo la tappa newyorchese al Solomon R. Guggenheim Museum e ripercorre l’intera parabola artistica di Gaitonde (19242001).
Nelle sale di Ca’ Venier dei Leoni l’itinerario parte dalle opere degli anni ’50, decisamente ispirate a Paul Klee, per poi passare attraverso le originali tele degli anni ’60 -’70: un mix di astrazione e spiritualità - che ricorda Vasily Kandinsky - unito alla filosofia e ad una filosofia, derivante dal crescente interesse di Gaitonde per il buddismo Zen. L’approdo è una pittura non-oggettiva e non rappresentativa, fatta di colori più sfumati, grazia e profondità.
Infine le creazioni degli anni ‘80 e ‘90: colpisce l’ultima in particolare, del 1997, un fondo ocra imbrunito con segni che ricordano una croce bizantina, o un crocevia. «Venezia è stata sempre città crocevia tra occidente e oriente. Con questa mostra la Guggenheim – sottolinea Philip Rylands, direttore del museo apre per la prima volta le porte all’arte asiatica presentando un grande maestro, con la curatela che ha ricostruito un pezzo di storia dell’arte che rischiava di andare perduto».
Benché si tratti del maggior modernista indiano, noto agli artisti e intellettuali della sua epoca, come a studiosi e collezionisti della generazione successiva, il nome di Gaitonde risulta ai più sconosciuto.
Eppure, negli ultimi dieci anni il valore delle sue opere ha cominciato a crescere, apprezzatissimo dai collezionisti asiatici ma non solo, raggiungendo nelle aste più recenti cifre a nove zeri. Anche perché «le opere di Gaitonde esistenti – spiega Sandhini Poddar - non sono molte, circa 200. L’artista tra l’altro distruggeva i lavori secondo lui non soddisfacenti». Peccato non poter vedere ora le opere «cancellate» da colui che è stato definito il «Rothko dell’India» per le ampie campiture che entrambi gli artisti utilizzano nei loro lavori. Si differenzia dall’espressionista astratto statunitense per l’aggiunta di una sua specifica calligrafia, segni uniti al colore, alla struttura, all’astrazione e alla prospettiva. Nei dipinti di Gaitonde c’è il distacco dalla vita materiale, così come avvenne nella sua esistenza. Nato a Nagpur, nel corso di tutta la sua carriera rimane un pittore indipendente, nonostante agli inizi degli anni ’50 si avvicini ai collettivi dell’avanguardia di Bombay. C’è un Gaitonde schivo e di poche parole ma pure uno cosmopolita, grande amante di cinema e musica. Una tappa importante fu la sua permanenza a New York, grazie a una borsa di studio messa in palio da Rockefeller, e qui nel 1965 venne immortalato dal fotografo Bruce Frisch nel suo studio al Chelsea Hotel. Una chicca riservata alla rassegna veneziana è che alcuni di questi scatti sono in mostra in format digitale.
Ultima nota: nessuna delle opere esposte ha titolo, allo spettatore cercarne uno nella propria contemplazione. Fino al 10 gennaio.