Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
«Porto a morire mio marito»
Gianni, veneziano, entra oggi nella stessa clinica di Fabo in Svizzera. Lo sfogo della moglie
VENEZIA «Sono arrabbiatissima, perché purtroppo siamo costretti a venire in Svizzera per avere una morte dignitosa e senza sofferenze». Il giorno dopo il caso del dj Fabo, un veneziano entra oggi nella stessa clinica all’estero, per il suicidio assistito. «Mio marito Gianni è malato da due anni - racconta la moglie - è una persona ancora lucidissima, che non è depresso. A lui piaceva tantissimo vivere però adesso condannato. Ora vuole andare a morire senza più soffrire e con dignità».
VENEZIA Tre veneti attendono la chiamata dalla Svizzera, per essere assistiti nel suicidio. Proprio come è successo a Fabio Antoniani, «dj Fabo», il 40enne diventato tetraplegico e cieco a seguito di un incidente stradale, che è morto ieri nella clinica «Dignitas» di Forch, nel cantone di Zurigo. Si tratta di due donne, una di Belluno, l’altra di Treviso; e di un uomo di Venezia, di cui si conosce il nome, Gianni. Che è già in Svizzera, accompagnato dalla moglie.
Exit
A confermarlo è Emilio Coveri, presidente di «Exit», l’«associazione italiana per il diritto ad una morte dignitosa», con sede a Torino, che si occupa di assistere le persone che chiedono di essere condotte all’estero per mettere fine alla propria esistenza. «Parliamo di richieste già attivate, da parte di nostri associati — spiega Coveri —. Sono persone che ci hanno chiamato e che abbiamo messo in contatto con le strutture specializzate. È la nostra mission. Noi, ci tengo a dirlo, non violiamo la legge, perché forniamo semplicemente la consulenza, dando le informazioni per raggiungere le quattro cliniche che praticano il suicidio assistito: a Berna, Basilea, Zurigo e Lugano. Una volta fatto questo, ci tiriamo indietro».
Coveri sostiene che le chiamate all’associazione siano in costante aumento, da tutto il Paese. Come anche le attivazioni formali delle richieste di suicidio assistito. «L’anno scorso sono stati 49 gli italiani che sono morti in Svizzera passando da noi — afferma —. Dal Veneto, invece, nel corso del biennio 2015/2016, sono partiti in sei. Ovviamente senza tornare. Sono numeri che fanno impressione e che rappresentano una vergogna per il nostro Paese. Considero che morire in esilio sia una vera umiliazione».
I precedenti
Non sono pochi, in effetti, i casi veneti di eutanasia. Solo per citarne alcuni, nel 2013 fece molto discutere la scelta di Piera Franchini, 74 anni, mestrina, con un lungo impegno nel Pci e poi in Rifondazione Comunista, che si recò (anche lei) alla «Dignitas» per la «dolce morte». Era malata di tumore al fegato: prima di partire decise di raccontare la sua scelta in un video di quattro minuti, diffuso postumo, nel quale esordiva così: «Io sono morta il 13 aprile» (quella testimonianza venne usata dall’associazione radicale «Luca Coscioni» come «promo» per la campagna per la legalizzazione dell’eutanasia). Pochi mesi prima un altro veneziano l’aveva seguita: Vittorio Bisso, già dirigente dei Comunisti Italiani ed ex assessore di Dolo. Aveva 54 anni ed era malato di Sla. Anche lui decise di rivolgersi alla «Dignitas».
Lo ricorda la moglie, Marisa Piovesan, che ieri ha parlato con il Corriere del Veneto: «Il suo fu un gesto di amore — racconta commossa —. Mio figlio, all’inizio, non era d’accordo. Ma io gli dissi: “Dire di no a papà sarebbe l’ultima cosa sbagliata che potremmo fare”. Quindi andammo insieme a Forch. Quel viaggio ovviamente non lo dimenticheremo mai, Vittorio sorrise prima di morire». Marisa non si è mai pentita: «Non ho alcun rimpianto — dice —. Quello che mi fa stare male, invece, è il pensiero che da quel giorno nulla sia cambiato. Pensando al povero dj Fabo provo rabbia, perché purtroppo ogni tentativo di legiferare sulla questione si è arenato. Purtroppo le resistenze in Italia sono notevoli, soprattutto per colpa della Chiesa. Ognuno dovrebbe avere il diritto di scegliere».
Marisa Piovesan Mio marito Vittorio Bisso se ne andò cinque anni fa nello stesso modo. Non ho nessun pentimento, fu un gesto di amore. Mi dispiace solo che da allora non sia successo nulla. È colpa della Chiesa
Le altre scelte
Ma la questione è aperta. Recentissima, in Veneto, è la vicenda di Dino Bettamin, 70 anni di Montebelluna, ex macellaio malato di Sla, che per morire ha scelto la via della sedazione profonda. Rifiutando quindi l’eutanasia o il suicidio assistito. L’infermiera che lo ha assistito è Anna Tabarin, che insieme a Santo Tavana fa parte dell’associazione «Cura con Cura»: «Il punto non è discutere sulla libertà di autodeterminazione. Perché gli esseri umani, specie da noi, non sono liberi di autodeterminarsi quasi su nulla. Per cui — sostiene — il punto è affiancarsi nel ragionamento alle persone, dare loro un’alternativa culturale. La morte di dj Fabo? Non dico che persone come lui avrebbero bisogno di più tempo da quando finisce la loro vita precedente alla morte terrena, però forse di impiegarlo diversamente sì. Per cui fare un percorso culturale con le persone che si seguono non solo è doveroso, ma è anche l’unica via che ci resta».
Anna Tabarin Il punto non è discutere sulla libertà di autodeterminazione. Chi ce l’ha davvero in questo nostro Paese? Il punto è affiancarsi nel ragionamento alle persone, dare loro un’alternativa culturale