Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
Via il bracciale anti stalker «Fastidioso, ma ero sicura»
Storia di Debora, chiusa in casa per paura dell’ex marito
VENEZIA Debora, 40enne veneziana pestata a sangue dal marito, aveva ottenuto un bracialetto elettronico che le segnalava i movimenti dell’uomo. Ma ora il giudice l’ha tolto.
VENEZIA «Adesso mi vedi così, sorridente e con la battuta pronta, ma non ti stupire se da un momento all’altro dovessi scoppiare a piangere». Debora è la vittima che non ti aspetti. E non perché sta cercando di recuperare con tutte le sue energie la voglia di ridere e di vivere, ma semplicemente perché mostra una forza vera, anomala, che stride con l’etichetta di una persona fragile e sottomessa.
Fa impressione, fa capire quanto la violenza e lo stalking non facciano differenze. Debora, 40enne di una cittadina dell’entroterra veneziano, un mese fa era stata dotata di un braccialetto che la avvisava con un impulso sonoro continuo dei movimenti del marito. Il giudice Irene Casol, su richiesta del pubblico ministero Alessia Tavarnesi, gliel’ha fatto togliere, ritenendo che alla vittima non si possa applicare un dispositivo tanto invasivo e afflittivo. Il braccialetto, infatti, «trilla» praticamente ogni due minuti. Quando aumenta di intensità, significa che la persona direttamente collegata al dispositivo, in questo caso il marito, si sta avvicinando.
Debora all’inizio aveva fatto fatica ad adattarsi a quel «bip» a intermittenza. Ma poi era entrato nella sua routine. «Sì, suonava 24 ore al giorno — racconta — ogni due-tre minuti. La sera ho provato anche a nasconderlo in un cassetto, ma mi faceva vibrare tutto il comodino». Un fastidio che però preferiva alla sensazione di insicurezza, alla paura di potersi trovare davanti quell’uomo. «Ero tranquilla con quel suono costante, mi ci ero abituata. I carabinieri erano diventati i miei angeli custodi, ogni volta che aumentava di frequenza mi telefonavano, oppure si presentavano a casa: “Signora, tutto bene?”. Non è dato sapere se quelle variazioni di ritmo fossero legate alla vicinanza dell’uomo o se, in realtà, fosse legato alla difficoltà di raggiungere il gps.
Fatto sta che, ieri mattina, Debora ha riconsegnato in caserma il dispositivo. E racconta: «Le mie figlie adesso mi chiedono: mamma ma adesso siamo sicure? Possiamo uscire di casa? Anche loro ormai si erano abituate al mio braccialetto. Adesso mi manca un po’ non sentirlo vibrare nella borsetta. I carabinieri mi hanno detto di telefonare al 112 se succede qualcosa. Ma è una parola, se quello ha i cinque minuti, può bastare una telefonata?».
«Quello» è l’uomo con cui Debora ha trascorso metà della sua vita: vent’anni, tra fidanzamento e matrimonio. Parliamo dell’uomo che il 7 giugno scorso l’ha picchiata a sangue davanti alle figlie, rischiando di ucciderla. L’uomo che il 19 luglio è finito agli arresti domiciliari per aver cercato di introdursi in casa sua con una scala, urlando, per «convincerla» a ritirare la denuncia. L’uomo che, ancora oggi, vive a un chilometro e mezzo da lei e le sue figlie. E qui Debora ritorna cupa. «Non dormo più. Rimango sul divano, a fissare la porta. Mi sembra di fare la guardia», ammette.
«A Debora è stata diagnosticata una sindrome da stress post traumatico — spiega il suo avvocato, Matteo Lazzaro —. Non è sicura di se stessa, non è sicura degli ambienti. Gli episodi più gravi di violenza sono avvenuti in casa. Il giudice riteneva che non potesse esserle imposto l’utilizzo di un dispositivo invasivo ma noi abbiamo fatto mettere a verbale che nonostante ciò quel braccialetto le dava sicurezza. Per questo motivo ci siamo opposti alla revoca del provvedimento».
Ora si attende l’esito del processo: la sentenza per il marito di Debora arriverà il 30 marzo, il pubblico ministero ha chiesto la condanna a un anno e sei mesi di carcere, chiedendo che non venga riconosciuta la sospensione condizionale della pena. Debora conta i giorni, perché non ne può più. Questa storia l’ha logorata, ha lottato contro la sua famiglia, che le chiedeva di restare con il marito. «I miei genitori mi dicevano che non lo dovevo lasciare — conferma lei — che lui mi manteneva e che altrimenti non avrei potuto sfamare le mie figlie. Ma è vita stare con una persona che ti massacra di botte? Preferisco stare da sola, un lavoro sono certa di trovarlo».
Quando il processo si concluderà, Debora potrà avviare definitivamente le pratiche per la separazione, ultimo ostacolo per la ricostruzione di una nuova vita. È ora di andare, le bimbe hanno un martedì grasso da festeggiare. Ma sulla porta, l’ultima riflessione: «Sai cos’è incredibile di tutta questa storia? In questo momento mio marito è libero, fa quello che vuole in giro. Quelle agli arresti domiciliari, recluse dalla nostra paura, siamo noi. Non è una situazione paradossale?»
Il giudice Non si può applicare un dispositivo tanto invasivo e afflittivo alla vittima di un reato. Per questo motivo le va tolto