Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
L’orgoglio del Veneto e il mea culpa necessario
L’economista Micelli e Rota della Cisl: «Basta vivere nel passato, anche qui sono stati fatti errori. Se siamo veri leader indichiamo soluzioni»
VENEZIA Il ventennale dell’assalto dei Serenissimi al Campanile di San Marco («Ma non fu un assalto, fu un atto di liberazione, che è cosa ben diversa» precisa Franco Rocchetta), nell’anniversario della caduta della Repubblica di Venezia che il consiglio regionale si appresta a celebrare con una luttuosa seduta dedicata («La data è sbagliata, la Repubblica non cadde il 12 maggio 1797, si dovrebbe studiare di più» postilla sempre Rocchetta) diventa l’occasione per una riflessione sul Veneto di ieri e di oggi, sulla sopravvivenza di focolai indipendentisti ed autonomisti («Un quadro desolante» scuote la testa Rocchetta) e di più, sulla loro «istituzionalizzazione» per il tramite della Regione a trazione leghista, al punto che il governatore Luca Zaia, ieri, su questo giornale, ha avvertito: «Un filo unisce quel dì del 1997 al 22 ottobre 2017, giorno in cui celebreremo il referendum per l’autonomia: il filo della Storia. Ora come allora il Veneto, dopo, non sarà più quello di prima».
Anche su questo, però, Franco Rocchetta, il padre della Liga «la madre di tutte le Leghe», ha da ridire. E sferza: «Il voto è l’approdo finale di un viaggio. Qual è stato il nostro viaggio? Avremmo potuto arrivare a questo momento con un percorso storico e culturale adeguato, con la piena consapevolezza del gesto che ci apprestiamo a compiere. E invece si vuole soltanto piantare una bandierina, marcare un territorio. Ma una volta che la bandierina è stata piantata, non c’è più nulla». Che è quel che ha detto Massimo Cacciari, nel 1997 sindaco di Venezia, del gesto dei Serenissimi: «Di quella notte non è rimasto niente». Rocchetta, com’è facile intuire, è di idea ben diversa: «Da vent’anni si cerca di intorbidire quella vicenda, che affonda le sue radici nella storia della Serenissima e la cui linfa arriva fino a noi. L’aspetto militare, al centro delle cronache e del processo, è stato puramente simbolico e rituale, tanto è vero che i Serenissimi, pur prendendole in considerazione, scartarono tutte le opzioni più violente, alcune delle quali coinvolgevano Palazzo Ducale e prevedevano distruzioni e spargimenti di sangue. L’evento fu importante sul piano diplomatico e istituzionale, con l’invio dei dispacci alle cancellerie di tutto il mondo». Dispacci che annunciavano la ricostituzione della Veneta Serenissima Repubblica, che però non è affatto rinata, sicché prendere il Campanile non è servito a niente. «Non è vero. Ha ravvivato la bronthe - e ti prego di scriverlo con la grafia corretta, si premura Rocchetta - del sentimento popolare, è stato un fuoco che ha moltiplicato i fuochi, ben vivi ancora oggi nonostante la frammentazione, la disinformazione e la disorganizzazione desolante dei movimenti indipendentisti, perché il Veneto è stato economicamente e moralmente devastato dalla crisi peggio che dalle truppe napoleoniche e austriache. Quel gesto non è stato né inutile, né superato, né dimenticato».
Di certo è irripetibile, secondo Guido Papalia, ex procuratore generale a Brescia ed ex capo della procura di Verona, che nel 1997 fu in prima linea nelle indagini sul Veneto Serenissimo Governo: «Quel gesto, che maturò in un clima, per così dire, di disattenzione generale, era fuori luogo all’epoca, figuriamoci nel 2017. Non credo che oggigiorno sarebbe mai possibile un evento di portata eversiva vera e propria e neppure un’azione dimostrativa di quel tipo, mi pare inconcepibile. Da quel che ne so, di quel manipolo venetista è rimasto qualche sparuto gruppo culturale ancora ispirato da ideali indipendentisti ma di matrice dichiaratamente pacifista». Ben diverso, secondo l’ex procuratore, il clima politico sul fronte dell’autonomia: «Lì la Regione ha tentato una forzatura, approvando la legge per il referendum sull’indipendenza che difatti è stata subito stoppata dalla Corte costituzionale. Ora ha virato sull’autonomia che è invece pienamente conforme al dettato della Carta, anche se il referendum è inutile, l’iter si sarebbe potuto avviare già da tempo».
Un certo scetticismo sulla chiamata alle urne di ottobre, e sulla grancassa venetista che la accompagna, la nutre anche il segretario della Cisl Onofrio Rota, non a caso protagonista ieri, dal palco del congresso della sigla sindacale, di un vivace botta e risposta con Zaia: «Sosterremo il Sì a condizione che non sia un cavallo di Troia per rivendicazioni che propugnano una ulteriore sconnessione del Veneto dal Paese, alimentando l’antagonismo perfetto. Non facciamoci male da soli». Anche perché, ha sezionato impietosamente Rota, dalle tangenti sul Mose al crack delle Popolari il primato del Veneto è finito piuttosto malamente: «Stiamo arrancando non perché qualcuno ci ha appesantiti con catene, non possiamo scaricare la responsabilità sugli altri, non c’è un complotto contro di noi. Dobbiamo riprendere il giusto senso dell’autocritica che l’epopea del Grande Veneto ci ha fatto mettere nel cassetto, perché uno alla volta gli idoli che sorreggevano questo antico orgoglio identitario sono caduti».
D’accordo l’economista ed ex direttore scientifico di Fondazione Nord Est (ha lasciato l’incarico a fine aprile) Stefano Micelli, che pure sottolinea «l’indeterminatezza, allo stato attuale, dei contenuti del referendum e di come l’autonomia possa concretamente aumentare la nostra competitività» per poi ricordare che «non soltanto le Popolari e il Mose, anche Veneto Nanotech e la Pedemontana sono lo specchio delle difficoltà oggettive che il Veneto ha incontrato al momento di affrontare sfide complesse, che vedevano noi e soltanto noi come attori protagonisti, sicché è qui che si deve criticare, è con noi stessi che ci dobbiamo lamentare perché non siamo stati all’altezza». Micelli, però, fa anche un’altra riflessione che suona come una (sana) provocazione: «Nelle parole d’ordine e nella narrazione di un territorio, alle volte, ci si muove per inerzia. Così accade in Veneto, una regione che insiste - e mi riferisco al mondo dell’impresa - a reclamare una diversità che non esiste più, semplicemente perché il “modello Nordest” ha vinto, è diventato lo standard guida del Made in Italy. E allora come si può rivendicare la propria differenza, la propria alterità quando si è mainstream? Mi pare un modo furbesco per chiamarsi fuori dalle responsabilità. Basta puntare il dito fuori, facciamoci carico noi dei problemi, elaboriamo soluzioni, indichiamo la strada. È così che un territorio vincente esercita la propria leadership». (2- fine)