Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
Indipendenza, alpini, Biennale: Il 12 maggio è un cortocircuito fra la «piccola patria» e il mondo
Pure scornato per la mancata «concessione» del conteso Palazzo Ducale, ma più che altro perché affittarlo costa 160 mila euro al giorno, Ciambetti e il leghismo istituzionale diserteranno il 12 maggio di Treviso. Il venerdì figlio di un altro «patriottismo» ovvero quello degli alpini, le quattrocentomila penne nere che in questi giorni celebrano il perpetuarsi di una «mitologia» in carne e ossa dai valori e dai voti trasversali ma dalla fede intatta nei confronti della bandiera (italiana) e della nazione (se è vero che molti alpini votano Lega, è sempre stata cassata la proposta di ospitare una «brigata Carroccio» all’interno dell’associazione).
A Treviso, all’alzabandiera degli alpini che prelude la Grande Adunata di domenica, ci sarà invece lo strappo di un pezzo di Veneto istituzionale che a sua volta diserterà Palazzo Ferro Fini: i consiglieri di Forza Italia, alleati della Lega nella maggioranza che sostiene il governo Zaia, alla mitologia serenissima non vogliono tener bordone. Pur credendo nella Famiglia (politica), preferiscono il richiamo dell’italica Patria. Cortocircuito nel cortocircuito, il governatore Luca Zaia, pur proclamandosi alfiere della «piccola patria» veneta attesa dal referendum autonomista del 22 ottobre, fa sapere che domani sarà all’alzabandiera della «grande patria» (italiana) che seppur con sete di riforme guarda all’Europa. Zaia sarà presente accanto a tutta l’impalcatura istituzionale della «grande patria». Non sappiamo se il governatore leghista, ad alzabandiera concluso, farà anche un salto a Palazzo Ferro Fini, ma la sua veste istituzionale e il suo chiaro pensiero filoindipendentista sempre esercitato nel rispetto delle regole democratiche lo esimono dal dover eventualmente giustificare il piede in due staffe.
Ma non è finita. Sempre domani, in un diverso 12 maggio, in Veneto ci sarà un pezzo di governo. Stavolta alla Biennale d’arte, alla cui apertura ufficiale presenzieranno Dario Franceschini (Cultura) e Maria Elena Boschi (Sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio). Al di là delle presenze istituzionali, senza le quali i veneti possono tranquillamente sopravvivere, è da sottolineare il valore (anche) simbolico della Grande Esposizione. Se le Biennali del presidente Paolo Baratta (arte, cinema, architettura) hanno sempre parlato linguaggi internazionali per vocazione intrinseca, c’è un elemento «politico» che le accompagna ed è quello della cultura dell’apertura, dell’inclusività, della sintesi e della proposizione delle tendenze che contengono le leadership del pensiero e del fare innovativo. Senza aspirazioni «antagoniste», la Biennale di Venezia è sempre un irrompere di mondi che non conosciamo e la cui «esplosione» - attraverso un invito alla complessità - ci è utile per capire e vivere il nostro, di mondo. Che non può esaurirsi dentro i confini delle «piccole patrie».
Insomma, l’incrocio (e la contrapposizione) di eventi presenta uno scenario chiaro. E’ un 12 maggio diviso fra la narrazione della «piccola patria», della «patria nazionale» e di quella che ritiene imprescindibile - contraddizioni comprese - l‘apertura al mondo globale. Mondo del quale, quasi paradossalmente, la Repubblica di Venezia è stata antesignana. Furono i dogi a costruire la prima grande fabbrica d’Europa (l’Arsenale) e le navi la Serenissima le usò in lungo e in largo nel mondo conosciuto più per portar merci e riceverne (Fondaco dei Turchi, Fondaco dei Tedeschi...) che caricare armi. Così come oggi, interpreti di una tradizione mercantile millenaria, gli imprenditori del Nordest, a volte con un inglese un po’ mozzicato ma un’abilità che fa del Pil dell’export uno dei pilastri nazionali, pensano più a celebrare la voglia di futuro fatto di lavoro, benessere e crescita sociale che «mitologie» più o meno fondative.
Se il Veneto, ricongiunto all’Italia sei anni dopo l’unità, si porta appresso lo stigma o la medaglia (a seconda delle interpretazioni) di essere la regione più anti-Stato del Paese, l’impressione è che il mondo produttivo (e non solo) guardi con tenerezza e disincanto al fermento semi folcloristico dei dogi rivisitati; e che il suo eventuale antistatalismo e la sua insofferenza si rivolgano più alla pressione fiscale e alle incrostazioni legate alla burocrazia oltre che alla giustizia lenta. Lo stesso referendum sull’autonomia che per Zaia è la madre di tutte le battaglie per avere il modello Bolzano (il 90 per cento delle tasse trattenute in loco), per i veneti un po’ avveduti può servire sì a mettere all’ordine del giorno la «questione settentrionale» ma con la consapevolezza che lo Stato centrale non potrà mai – dal centrodestra al centrosinistra fino ai grillini – devolvere ad una sola regione pur virtuosa miliardi di euro.
Se lo facesse con il Veneto che direbbe la Lombardia (pure a referendum) e cosa l’Emilia Romagna e cosa la Toscana? Forse, più che «secedere», il Veneto dovrebbe far «succedere» ciò che non è mai successo. Candidarsi - dalla politica alle classi dirigenti - a guidare questo Paese e non a fermarsi a rivendicazioni da «piccola patria».
Non tutte le nazioni sono uguali, ma quello che è successo in Francia dovrebbe insegnare qualcosa. Al netto della «cattiva» ed emendabile Europa, con Macron è stata fatta una scelta «per l’Europa» e contro chi predica l’isolamento e il sovranismo di stampo ottocentesco. C’è tanto da fare per riallineare i «salvati» del mondo globalizzato con i «sommersi» che ne stanno pagando lo scotto, ma la fuga all’indietro è la morte di qualsiasi 12 maggio.