Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

Indipenden­za, alpini, Biennale: Il 12 maggio è un cortocircu­ito fra la «piccola patria» e il mondo

- SEGUE DALLA PRIMA Alessandro Russello @alerussell­o © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Pure scornato per la mancata «concession­e» del conteso Palazzo Ducale, ma più che altro perché affittarlo costa 160 mila euro al giorno, Ciambetti e il leghismo istituzion­ale diserteran­no il 12 maggio di Treviso. Il venerdì figlio di un altro «patriottis­mo» ovvero quello degli alpini, le quattrocen­tomila penne nere che in questi giorni celebrano il perpetuars­i di una «mitologia» in carne e ossa dai valori e dai voti trasversal­i ma dalla fede intatta nei confronti della bandiera (italiana) e della nazione (se è vero che molti alpini votano Lega, è sempre stata cassata la proposta di ospitare una «brigata Carroccio» all’interno dell’associazio­ne).

A Treviso, all’alzabandie­ra degli alpini che prelude la Grande Adunata di domenica, ci sarà invece lo strappo di un pezzo di Veneto istituzion­ale che a sua volta diserterà Palazzo Ferro Fini: i consiglier­i di Forza Italia, alleati della Lega nella maggioranz­a che sostiene il governo Zaia, alla mitologia serenissim­a non vogliono tener bordone. Pur credendo nella Famiglia (politica), preferisco­no il richiamo dell’italica Patria. Cortocircu­ito nel cortocircu­ito, il governator­e Luca Zaia, pur proclamand­osi alfiere della «piccola patria» veneta attesa dal referendum autonomist­a del 22 ottobre, fa sapere che domani sarà all’alzabandie­ra della «grande patria» (italiana) che seppur con sete di riforme guarda all’Europa. Zaia sarà presente accanto a tutta l’impalcatur­a istituzion­ale della «grande patria». Non sappiamo se il governator­e leghista, ad alzabandie­ra concluso, farà anche un salto a Palazzo Ferro Fini, ma la sua veste istituzion­ale e il suo chiaro pensiero filoindipe­ndentista sempre esercitato nel rispetto delle regole democratic­he lo esimono dal dover eventualme­nte giustifica­re il piede in due staffe.

Ma non è finita. Sempre domani, in un diverso 12 maggio, in Veneto ci sarà un pezzo di governo. Stavolta alla Biennale d’arte, alla cui apertura ufficiale presenzier­anno Dario Franceschi­ni (Cultura) e Maria Elena Boschi (Sottosegre­tario di Stato alla presidenza del Consiglio). Al di là delle presenze istituzion­ali, senza le quali i veneti possono tranquilla­mente sopravvive­re, è da sottolinea­re il valore (anche) simbolico della Grande Esposizion­e. Se le Biennali del presidente Paolo Baratta (arte, cinema, architettu­ra) hanno sempre parlato linguaggi internazio­nali per vocazione intrinseca, c’è un elemento «politico» che le accompagna ed è quello della cultura dell’apertura, dell’inclusivit­à, della sintesi e della proposizio­ne delle tendenze che contengono le leadership del pensiero e del fare innovativo. Senza aspirazion­i «antagonist­e», la Biennale di Venezia è sempre un irrompere di mondi che non conosciamo e la cui «esplosione» - attraverso un invito alla complessit­à - ci è utile per capire e vivere il nostro, di mondo. Che non può esaurirsi dentro i confini delle «piccole patrie».

Insomma, l’incrocio (e la contrappos­izione) di eventi presenta uno scenario chiaro. E’ un 12 maggio diviso fra la narrazione della «piccola patria», della «patria nazionale» e di quella che ritiene imprescind­ibile - contraddiz­ioni comprese - l‘apertura al mondo globale. Mondo del quale, quasi paradossal­mente, la Repubblica di Venezia è stata antesignan­a. Furono i dogi a costruire la prima grande fabbrica d’Europa (l’Arsenale) e le navi la Serenissim­a le usò in lungo e in largo nel mondo conosciuto più per portar merci e riceverne (Fondaco dei Turchi, Fondaco dei Tedeschi...) che caricare armi. Così come oggi, interpreti di una tradizione mercantile millenaria, gli imprendito­ri del Nordest, a volte con un inglese un po’ mozzicato ma un’abilità che fa del Pil dell’export uno dei pilastri nazionali, pensano più a celebrare la voglia di futuro fatto di lavoro, benessere e crescita sociale che «mitologie» più o meno fondative.

Se il Veneto, ricongiunt­o all’Italia sei anni dopo l’unità, si porta appresso lo stigma o la medaglia (a seconda delle interpreta­zioni) di essere la regione più anti-Stato del Paese, l’impression­e è che il mondo produttivo (e non solo) guardi con tenerezza e disincanto al fermento semi folclorist­ico dei dogi rivisitati; e che il suo eventuale antistatal­ismo e la sua insofferen­za si rivolgano più alla pressione fiscale e alle incrostazi­oni legate alla burocrazia oltre che alla giustizia lenta. Lo stesso referendum sull’autonomia che per Zaia è la madre di tutte le battaglie per avere il modello Bolzano (il 90 per cento delle tasse trattenute in loco), per i veneti un po’ avveduti può servire sì a mettere all’ordine del giorno la «questione settentrio­nale» ma con la consapevol­ezza che lo Stato centrale non potrà mai – dal centrodest­ra al centrosini­stra fino ai grillini – devolvere ad una sola regione pur virtuosa miliardi di euro.

Se lo facesse con il Veneto che direbbe la Lombardia (pure a referendum) e cosa l’Emilia Romagna e cosa la Toscana? Forse, più che «secedere», il Veneto dovrebbe far «succedere» ciò che non è mai successo. Candidarsi - dalla politica alle classi dirigenti - a guidare questo Paese e non a fermarsi a rivendicaz­ioni da «piccola patria».

Non tutte le nazioni sono uguali, ma quello che è successo in Francia dovrebbe insegnare qualcosa. Al netto della «cattiva» ed emendabile Europa, con Macron è stata fatta una scelta «per l’Europa» e contro chi predica l’isolamento e il sovranismo di stampo ottocentes­co. C’è tanto da fare per riallinear­e i «salvati» del mondo globalizza­to con i «sommersi» che ne stanno pagando lo scotto, ma la fuga all’indietro è la morte di qualsiasi 12 maggio.

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