Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
Da Berlusconi a Giordani, se la malattia irrompe in politica: ma giova o rovina?
uando il leader si ammala. È una storia lunga quella che sta dietro all’ultimo, sfortunato caso di Sergio Giordani, colpito da un attacco ischemico ma rimasto in corsa per la carica di sindaco di Padova e ora in buone condizioni. Il racconto dei politici e delle loro sventure durante e dopo le campagne elettorali è fatto di epos, di drammi e a volte anche di qualche ironia. Ce ne passa, per esempio, dall’attentato di Pallante a Togliatti (era il 14 luglio 1948, «assicuro ai compagni che saprò essere di nuovo al mio posto di lavoro», disse, iconicamente, il segretario PCI), al presidente della Puglia Michele Emiliano, che si è collegato qualche settimana fa con il congresso del Pd dal letto di ospedale, operato per un tendine di Achille procuratosi mentre ballava la tarantella. Che si sia ammalati gravemente — Giorgio Guazzaloca affrontò le comunali bolognesi 2004 con un melanoma, in città lo si sapeva bene — o che si sia vittima del classico, banale incidente di percorso — Zaia nel 2010 a pochi giorni dal voto delle regionali e in piena campagna sugli OGM si beccò un’influenza per il troppo stress — quando il leader si ammala è sempre un problema. E la domanda un po’ crudele, sottesa, resta la stessa: gli gioverà o lo danneggerà? Lo renderà più umano o viceversa più debole? «Possono succedere entrambe le cose», dice lo storico Giovanni Sabbatucci, tra i massimi esperti dell’Italia contemporanea. «Un tempo si privilegiava l’immagine del politico nel pieno delle sue forze, adesso questo è cambiato. La differenza fondamentale è fra stati autoritari e non autoritari. Nei regimi non democratici la malattia del capo deve essere nascosta, fino agli estremi casi dei leader sovietici o di Franco. Viceversa, un leader democratico come De Gasperi non perse un briciolo del suo prestigio e della sua autorevolezza anche quando, negli ultimi anni della sua vita, era malato, si sapeva, e rimase in carica. E poi ci sono casi più recenti, come l’invalidità di Wolfgang Schäuble, ministro tedesco che non esita a mostrarsi in carrozzina, o come Paolo Gentiloni, che ha subito In alto, Sergio Giordani, che firma la candidatura nella camera di ospedale. A sinistra, Emma Bonino. In alto a destra, Michele Emiliano dopo l’intervento al piede. A destra, Silvio Berlusconi, dopo il lancio della statuetta un’angioplastica a gennaio 2017 dopo un malore, senza che questo abbia minimamente cambiato il suo percorso». Anzi. Viene in mente il foulard di Emma Bonino, simbolo della battaglia contro il cancro, e il corpo di Pannella e quello di Coscioni, usati per le battaglie biopolitiche radicali. Senza dimenticare il caso più plastico (in tutti i sensi). Berlusconi. Che del suo corpo ha fatto un feticcio, una presenza fissa, dagli interventi al viso al tumore alla prostata, dalle operazioni di tricologia alla statuetta in viso che gli lanciò in Piazza Duomo nel 2009 Massimo Tartaglia. «Le cose sono cambiate in questi decenni», riflette il politologo Marco Almagisti, docente all’Università di Padova. «Nella Prima repubblica il pudore aveva un senso storico: i politici cercavano una discontinuità rispetto al fascismo, che aveva un culto del corpo assolutamente centrale. La fisicità di Mussolini, la sua condizione atletica e tonica, era parte della narrazione che faceva di sé. Nel dopoguerra i grandi leader repubblicani cercano volutamente uno stile più trattenuto». Poi in questi ultimi decenni le cose cambiano ancora. «Certo. E non penso solo a Berlusconi, e, prima di lui, a Craxi. Ma proprio alle contese comunali, dove è stata la nuova legge elettorale, in vigore dal 1993, a imprimere una svolta. Prima si votava un partito. Adesso si sceglie un leader, lo si vede sui cartelloni elettorali nelle vie delle città, con la sua faccia, la sua riconoscibilità immediata, la sua corporeità. E sempre più un infortunio legato al corpo diventa anche, inevitabilmente, un ‘problema’ politico». Sì, ma fino a che punto? «Tendenzialmente non c’è una regola», dice Enzo Risso, direttore scientifico SWG. «Negli ultimi anni c’è la tendenza a porre attenzione sulla salute dei candidati, di solito sottolineandone le debolezze. Ma questo dipende dalla relazione che il politico ha con l’elettorato. La salute incide di meno su un candidato che è già stato sindaco rispetto a uno che è in corsa per la prima volta, perché l’atto stesso della conquista presuppone una buona prestazione». «Se queste cose influenzano l’elettore vuol dire che c’è qualcosa che non va», commenta Oliviero Toscani. Secondo l’ideatore delle grandi campagne di comunicazione, «chi si fa influenzare dalla salute non è un bravo cittadino: non devi votare o non votare qualcuno per pena fisica. Devi votarlo per le sue competenze. Poi io spero che Bitonci non vinca, e spero che rimanga sano, perché politicamente è già malatissimo così». Infine ci sono gli sgambetti, i colpi bassi, le scorrettezze. Ovvero: quando si usa la salute per danneggiare l’avversario. Di Mussolini si disse per un po’ che avesse la sifilide, di Hitler si evidenziava il tremore alla mano. Di Hillary Clinton si è detto che avesse un tumore al cervello, che soffrisse di attacchi di nervi. «Fa parte dei comportamenti che in politica vengono classificati come molto sleali», dice Sabbatucci. «Ma bisogna vedere se alla fine pagano oppure no. Possono creare un’imprevista corrente di solidarietà».