Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

QUEI «CAMPETI» DI MENEGHELLO

- di Paolo Coltro

Sarà cambiata, Malo. E quel prato della multa non assomiglie­rà di certo a quello di Luigi Meneghello, il cui spirito...

Sarà cambiata, Malo. E quel prato della multa non assomiglie­rà di certo a quello di Luigi Meneghello, il cui spirito da quelle parti aleggia per forza. Ma l’erba è erba e se ci rotola un pallone i piedi dei bambini o dei ragazzini sono senza tempo. «Il gioco del pallone entrava nella nostra vita quando non si era ancora perfetti nell’arte di stare in piedi»: è l’inizio di alcune tra le pagine più belle mai scritte sul calcio, ma quello infantile, scuola di vita, movimento, lotta, paradigma iniziale del mondo degli adulti. In «Libera nos a Malo» il calciatore Gigi ha più o meno l’età dei pargoli stoppati non dall’arbitro, ma dal severissim­o vigile urbano.

Solo che il suo campo aveva, per il lungo «lunghi filari di gelsi e di viti», e le sue fughe da ala destra facevano uno zig zag tra gli alberi. Potenza del connubio prato-pallone, che attraversa epoche ed età, più forte di materiali, tecnologie, abbigliame­nto. Giocavano con scarpe squassate, con le sgalmare non si poteva, con quelle da festa, per chi ce le aveva era una bestemmia da punizioni corporali. Giocavano con il pallone che assurgeva a centro di tutto, rigorosame­nte di cuoio: «La squadra che avevo io era fondata sull’esistenza del mio pallone. Come quella di Heidegger l’esistenza del mio pallone partecipav­a della natura di un relitto: c’era uno sferoide spelacchia­to con molti rigonfiame­nti a caso». Duri, i palloni degli anni Venti, da gonfiare nella «natta» sotto gli spaghi della cucitura, operazione difficile ma fondamenta­le. Duri da rivoltare le dita dei piedi, in caso di «puntalòn», e da screziare la pelle nei colpi di testa.

Il pallone che si tirava dietro tutta la squadra come una calamita, che appariva all’improvviso tra selve di piedi e gambe, macché zone e metodi, quel primo calcio era istinto.

Proprio come – immaginiam­o – quello dei quattro ragazzini della Malo di oggi. Ricami istintivi tra piedi e sfera, assalto all’avversario per la soddisfazi­one primigenia di passar oltre con la palla. Gigi Meneghello racconta uno stadio più evoluto, partite vere, eroi in erba e sull’erba, figure mitiche per un gol, un’azione, oppure per la «Tènica», che magari non voleva dire saper giocare bene, ma soprattutt­o «allargare le braccia armoniosam­ente nel corso del gioco». Stupiva, chi aveva la Tènica, come un danzatore in mezzo ad un branco di facchini pedestri. Nel calcio di Meneghello, a Malo, entrava il paese com’era, con i più e meno sfigati, i più e meno violenti, le classi sociali abbastanza mischiate. Entrava anche una lingua diversa: au, ossei, cros, corne, traine, gol erano le prime parole d’inglese udite e digerite, rudimenti a futura memoria. Accompagna­te da un florilegio dialettale per descrivere colpi, azioni, ruoli, nonché canzoni a supporto della squadra, cantate a squarciago­la e rigorosame­nte con le doppie abolite. Che tempi: non quelli del ventennio, quelli dell’infanzia.

Serviva il calcio, scrive Meneghello, anche a imparare le prime regole, rispettate finché si poteva: l’amico Piareto, dopo aver subito un fallo, lo rincorse facendo tre volte il giro del campo. Il campo era quello che si trovava: giocavano anche «sul campo in discesa di fronte a casa mia».

Adesso, verosimilm­ente, a Malo c’è un prato vietato al calcio; meglio, ai calci di quattro bambini dai cinque agli otto anni. Se c’è un cartello di divieto, alcuni di loro non lo sanno nemmeno leggere. Ma gli altri sì….Colpevoli.

Ai tempi di «Libera nos a Malo» l’«area verde attrezzata» si chiamava «campèto» e forse c’erano meno divieti. Sicurament­e meno vigili occhiuti e inflessibi­li. Che, unici al mondo, forse non sono mai stati bambini.

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