Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
Le mura veneziane (ma non di Venezia) diventano patrimonio dell’umanità Da Palmanova a Peschiera, da Bergamo a Zara: «Spot da due milioni di dollari»
L’UNESCO STORIA E PATRIMONIO
Sventolìo di bandiere italiane, croate e montenegrine per il riconoscimento come patrimonio Unesco dell’umanità delle «opere di difesa veneziane fra 16° e 17° secolo: Stato da terra e Stato da mar occidentale». Ma non sventola la bandiera con il leone di San Marco, Venezia è esclusa con le sue fortificazioni in laguna, come quelle nell’Egeo, a Candia, in Anatolia, sul mar Nero… ovunque ci fossero da difendere commerci e baili. Non sono i misteri della diplomazia o della burocrazia, ma quelli di un’analisi storico-filologica ferrea e nel contempo difficilmente comprensibile alle frotte di turisti affascinati dalla storia. Ma tant’è: nel patrimonio Unesco entrano le mura veneziane di Bergamo, le fortificazioni di Peschiera sul Garda, l’incomparabile città-fortezza di Palmanova, nonché le architetture militari di Zara (Zadar) e Sebenico (Sibenik) in Croazia e Cattaro (Kotor) in Montenegro.
Una strada lunga, dall’idea al riconoscimento, se si pensa che si cominciò a vagheggiarla a Bergamo già nel 1988, ventinove anni fa. Per costruire i bastioni bergamaschi, sforando tempi e costi, la Serenissima impiegò ventisette anni. Ed erano pietre e mattoni, mica carte. Bergamo, la capofila del progetto, ha avuto il gran merito di crederci e di convincere: il progetto viene ufficializzato nel 2007, nel 2014 l’inserimento assieme a Croazia e Montenegro nella «Tentative List», due anni dopo l’Italia decide che questa sarà la sua unica candidatura non ambientale per quell’anno, consegnando all’Unesco un dossier di mille pagine.
A maggio 2017 il responso di Icomos (International Council of Monuments and Sites), braccio operativo della consulenza Unesco. Icomos raffina, elimina, lima, sottilizza, cambia il titolo del sito transnazionale che il 9 luglio passa alla grande nell’assise decisiva dell’Unesco a Cracovia.
Il fatto è, in verità, che i veneziani si sono inventati per primi un tipo di fortificazione all’avanguardia per quegli anni iniziali del ‘500 in cui le artiglierie erano sempre più efficienti e nel contempo mutava la sua visione/posizione commerciale nel mondo.
L’America è lontana, si ragionava in Maggior Consiglio, meglio potenziare le reti commerciali mediterranee ed europee e i confini dello Stato da terra. Detto, deciso e quasi fatto: Venezia ci impiega novant’anni per Venezia per mettersi in sicurezza, militare e commerciale: i due aspetti non erano mai disgiunti.
E allora vediamole, queste fortezze che dopo progettisti, architetti, schiere di operai e soldati, residenti adesso attendono nuove ondate di turisti attratte dal timbro fresco fresco di gioielli dell’umanità. L’Unesco sostiene che il riconoscimento equivale, nell’immediato, a una campagna pubblicitaria da due milioni di dollari.
Se ne renderanno conto i 5500 abitanti di Palmanova? Lì dove è tutto tranquillo dal 1848, i tempi dell’ultimo assedio austriaco quando la città si ribellò agli Asburgo assieme a Venezia, tranquillo e vuoto e bellissimo, nel paradigma di una geometria che unisce utopia a razionalità. Palma (il Nova verrà aggiunto da Napoleone assieme alla terza cerchia di mura) nacque dal nulla il 7 ottobre 1593, nel giorno dell’anniversario della battaglia di Lepanto (1571) e di Santa Giustina protettrice. Dei diversi progetti di città poligonale, prima undici, poi dieci, infine nove lati, il Senato veneziano scelse l’ennagono, cosicché Palma splende come una stella a nove punte. Sentinella ai confini dell’Impero, ma soprattutto baluardo contro i Turchi che facevano sempre paura. E da lì partirono anche i soldati che combatterono gli Uscocchi, pirati slavi scatenati arroccati a Segna, che tra il 1592 e il 1609 si erano impadroniti di 250300 navi veneziane, il 10 per cento dei navigli in mare. Gente che non faceva sconti: nel 1613 catturarono la galera del sopracomito Cristoforo Venier, uccisero tutto l’equipaggio, decapitarono Venier divorandogli il cuore dopo averlo strappato dal petto. Brutalità che non arriva nell’eleganza del perimetro di bastioni, della piazza esagonale centrale contornata d’acqua, delle diciotto strade radiali. Palmanova rimane una città ideale realizzata e visibile, anche se non si riuscì mai a popolarla, oltre ai soldati, con i ventimila abitanti previsti. Appunto, un sogno per pochi.
A Peschiera i bastioni si riflettono sull’acqua, praticamente da sempre: fin dalle origini è stata una cittadella militare e nella sua forma attuale la vediamo come la fecero i veneziani dal 1549 in poi. Uno scoglio a monito del Ducato di Milano, dove vivere non era semplice: «tale e tanta è la penuria di vivere sopra la fortezza di Peschiera e così puochi sono gli negotii...», recita una supplica del 1589. Ma oggi, accanto ai militari che restano, c’è colore, fascino, suggestione.
Bergamo alta è in Lombardia, ma una delle associazioni alfiere del progetto si è battezzata «Terre di Venezia». La Serenissima agli inizi del ‘500 la difendeva con le unghie e con i denti, ci furono scontri frequenti, ma Bergamo era anche il simbolo dei confini dello Stato da terra. Per cui, dal 1561 mura imponenti a difesa della città alta, con un significato politico preciso. Ma anche un’utilità non solo militare: funzionavano da barriera doganale.
Si è conservata praticamente intatta, con i suoi sei chilometri di sviluppo, una strada coperta esterna, 14 baluardi, due piattaforme, due polveriere, 100 aperture per bocche da fuoco, e quattro porte. Un’opera immensa: doveva costare 100 mila ducati e ne costò quasi un milione e mezzo, quindici volte tanto. Ci lavorarono per anni e anni più di 4000 muratori, lapicidi, guastatori, falegnami, tecnici, spazzando via più di 250 case del tessuto romano-medievale della città. Però a Bergamo alta non entrò più nessuno.