Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
Nei vecchi capannoni (da demolire) la nuova economia
Tremila stabilimenti abbandonati e la rivoluzione possibile: «Riqualificare si può, se ci sono però idee nuove»
Nei capannoni industriali dismessi può sorgere la nuova economia. Purché si trovi il modo di farli fruttare con idee davvero innovative. Ne sono convinti gli Industriali di Treviso e Padova, che hanno lanciato il messaggio nel convegno ieri sotto le volte dell’ex Pagnossin. In Veneto tremila capannoni abbandonati che tengono immobilizzati 13 miliardi. Il recupero di valore deve partire da lì.
TREVISO I contenitori ci sono. Anzi, la pianura veneta ne è piena zeppa: distese di tetti e fabbriche in passato produttive, spesso da molti anni in abbandono. Simboli di un’epoca di sviluppo tumultuosa. E bisogna tornare a riempirli, ora, quei capannoni. E se la manifattura in senso tradizionale non c’è più, i vuoti vanno sostituiti con idee di business nuove, adatte alla nuova epoca che deve confrontarsi con i servizi, la cultura e il digitale. E da lì tornare a produrre quel pezzo di ricchezza che la crisi ha fatto svaporare insieme ad un pezzo dell’industria, che non potrà più tornare. Perché proprio nei vecchi capannoni riempiti di nuove idee il Veneto, che fatica a tenere il passo della nuova economia digitale, può costruire il suo proprio paradigma per ridurre le distanze con quel modello. L’ha spiegato norme alla mano, ma anche con tanta praticità, l’avvocato Bruno Barel, partendo dalle varianti verdi, dalla legge regionale sul consumo zero del territorio e da un presupposto: «Vanno messi in contatto i mondi dell’offerta e della domanda di spazi. Ma questa è una rivoluzione culturale prima che industriale. Anche demolire conviene, se ci sono idee e fantasia. Le leggi per farlo già esistono, bisogna saperle utilizzare. Questa è la prima volta che la testa è più indietro delle leggi».
Barel ne ha parlato ieri pomeriggio a FabbricAzione, il convegno a Treviso voluto dalle Confindustrie di Treviso e Padova sotto le volte e negli spazi immensi dell’ex Pagnossin, la fabbrica di ceramiche diventata in parte polo logistico della Zanardo. Ma in cui gli spazi ormai da archeologia industriale si preparano ad accogliere anche un progetto diverso, che darà spazio al meglio dei prodotti locali. È come discutere del tema che si vuol provocare, facendolo in un esempio da manuale di quel che si vuol far capire. Ma al di là delle aspettative delle imprese, che chiedono alle pubbliche amministrazioni agevolazioni fiscali e facilitazioni burocratiche per affrontare il cambiamento, ci sono già strumenti dei quali approfittare.
«Per demolire un edificio basta una Scia se il bene non è vincolato: tempo necessario un giorno - comincia ad elencare Barel -. Per modificare la destinazione d’uso di un immobile per n’attività temporanea, basta un contratto con il Comune approvato dal Consiglio comunale: tempo necessario dieci giorni, e dove c’era l’industria si può aprire una sala da ballo. Sta già tutto nella legge regionale. Ci sono contributi per il risparmio energetico e il Sisma Bonus. Ma ci sono più regole che idee».
Eppure l’esempio che più sottolinea la versatilità del nuovo approccio al territorio, che deve fare i conti con il fatto che costruire non significa più veder rivalutati i beni, è la scelta di abbandonare la rincorsa ai metri cubi è quello dei 1.100 ettari edificabili che sono ritornati area verde in quasi metà dei Comuni veneti: i sindaci hanno di buon grado rinunciato all’Imu sui terreni, i proprietari alle cubature. «Quella delle varianti verdi è un’inversione culturale».
Secondo un’indagine di Confartigianato, in Veneto ci sono tremila capannoni abbandonati: «Un capitale improduttivo stimato intorno ai 13 miliardi – rileva infine Barel -. Chi si occupa di analisi economico-finanziaria capisce subito che c’è un enorme capitale non investito. Rimettere in moto anche il 10% di questo serbatoio significa rimettere ossigeno nelle arterie esauste della regione». Vorrebbe dire rimettere in circolo 1,3 miliardi di euro, quasi l’1% di Pil regionale in più. E allora perché non provare? Magari dando casa alle idee imprenditoriali dei giovani, inventandosi coworking e spazi per gli artigiani digitali. Di fronte al nulla, da perdere non c’è nulla. Ma se qualcosa funziona, decolla una nuova economia. E anche i vecchi capannoni riprendono valore.
La legge sul consumo zero del suolo veneto è una sfida da cogliere per la presidente degli industriali trevigiani Maria Cristina Piovesana. «È importante e condivisibile ma va approfondita sul piano degli effetti e accompagnata – ha commentato -. Il territorio va ripreso in mano, ricucito e risanato. Dobbiamo affrontare il tema insieme, imprese, istituzioni, professionisti e società civile. Non basta una legge a determinare il cambiamento che si propone di realizzare. Deve aggiungersi una cultura nuova, di consapevolezza e opportunità da cogliere. Oggi in molti casi l’edificazione esistente non è utile e non è riconvertibile. In qualche caso è meglio liberare il territorio e abbattere piuttosto che lasciare insediamenti impattanti. Dovremmo consentire alle imprese con programmi di crescita di realizzare obiettivi senza esser bloccate da vincoli normativi o volumetrie preesistenti. Servirà un forte investimento pubblico, soluzioni incentivanti per un efficace funzionamento dei crediti edilizi». La conclusione al presidente padovano, Massimo Finco: «Dobbiamo crescere per diventare competitivi. Aziende e politica si scrollino di dosso ottiche di breve respiro». E il governatore Luca Zaia: «I presidenti hanno ragione, il tema è la defiscalizzazione, servono norme ad hoc in Finanziaria. La Regione non può mettere in campo benefici fiscali».
Piovesana (Unindustria Treviso) Non basta una legge, serve l’impegno di imprese e istituzioni