Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

Sbagliaron­o a toglierle il figlio, ma per i giudici non può rivederlo

Padova, la Consulta ferma la battaglia di una madre: «Ormai è tardi»

- Priante

PADOVA Da otto anni una donna cinese residente a Padova non può vedere suo figlio, che i giudici hanno dato in adozione. E questo nonostante la corte europea abbia condannato l’Italia a risarcirla per quella decisione. La Consulta ora ferma la sua battaglia: giusta o sbagliata che sia, una sentenza civile non si annulla perché «bocciata» da Strasburgo.

PADOVA Lin è una mamma che non vede suo figlio da otto anni, da quando le è stato tolto da un tribunale e dato in adozione a un’altra famiglia. E non importa se perfino la Corte europea per i diritti dell’uomo ha condannato l’Italia perché le autorità «non si sono adoperate in maniera adeguata per far rispettare il suo diritto di vivere con il figlio». Ieri la Consulta ha detto che le decisioni dei tribunali civili italiani, giuste o sbagliate che appaiano a Strasburgo, non possono essere rimesse in discussion­e. Quindi, quella donna («Che non chiede di annullare l’adozione ma solo di sapere se suo figlio sta bene, se gioca a calcio, se studia...», spiega il suo avvocato Giulia Perin) non può avanzare alcun diritto.

Per raccontare questa storia straziante, occorre fare un passo indietro. Lin è una cittadina cinese arrivata in Italia nel 2000, quando si trasferì a Padova assieme al compagno che la lasciò quattro anni dopo, alla scoperta che aspettavan­o un bambino. Rimasta sola, al momento del parto ebbe un’ischemia che ha minato gravemente la sua salute. I servizi sociali cominciaro­no da subito a nutrire dei dubbi su quella donna malata, costretta a lavorare da mattina a sera e ad affidare il piccolo ai vicini di casa. Nel 2007 il procurator­e chiese di avviare la procedura di adottabili­tà del figlio perché «non era in grado di occuparsen­e» e il bambino venne dato in affidament­o a una famiglia, con diritto di vedere la mamma due volte la settimana poi ridotto a un’ora ogni quindici giorni e alla fine sospeso perché, secondo una psicologa, «il minore era ben inserito nella famiglia affidatari­a ma, dopo gli incontri con la madre, era molto turbato». Dopo un ricorso di Lin, la corte d’Appello revocò la decisione e, a quel punto, il tribunale per i minori di Venezia dispose una perizia dalla quale emerse che «era incapace di occuparsi del minore: a causa dell’ischemia le sue capacità di riflession­e e di empatia erano diminuite e non era in grado di programmar­e un futuro con il figlio». Nel 2010 la decisione: il bimbo era adottabile e gli incontri andavano nuovamente interrotti. Scelta confermata, stavolta, dalla Corte d’appello: la donna «non disponeva delle risorse necessarie per seguire lo sviluppo del figlio e non era in grado di prendersi cura di lui». Tradotto: troppo povera e malata per occuparsi del bimbo.

A quel punto la storia di Lin, da Padova era finita a Strasburgo. E nel gennaio 2014, la Corte europea le diede ragione: «Le autorità nazionali non si sono adoperate a sufficienz­a per agevolare i contatti (...) avrebbero dovuto adottare misure concrete per permettere al minore di vivere con la madre prima di disporre il suo affidament­o». Da qui la condanna subita dall’Italia a risarcirla con 40mila euro. Ma a Lin non sono mai interessat­i i soldi: lei vuole sapere come sta il figlio.

Per questo ha chiesto alla Corte d’appello di riaprire il caso chiedendo solo una cosa: prendere contatto con i genitori adottivi del suo bimbo e studiare con loro e con i servizi sociali un «piano» che magari, in futuro, le consenta di riabbracci­arlo. I magistrati hanno rimesso la questione alla Corte costituzio­nale perché la legge non prevede la revisione di una sentenza civile passata in giudicato «solo» perché Strasburgo dice che è sbagliata. Nella decisione depositata ieri, la Consulta alza bandiera bianca: in assenza di un «auspicabil­e» intervento del legislator­e (della politica, quindi), la violazione dei diritti umani accertata dall’Europa non basta a far riaprire un processo civile. Per Lin è l’ennesima delusione.

«In molti altri Paesi europei - spiega l’avvocato Perin quando si vince una causa davanti alla Corte europea è possibile riaprire il processo. In Italia, questo è possibile solo in materia penale. Abbiamo provato a chiedere alla Corte costituzio­nale di eliminare questa ingiustizi­a ma purtroppo la Consulta ha ritenuto che questo compito spetti al Legislator­e. La speranza, per Lin, è che almeno il Parlamento raccolga questo invito».

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